
Certamente. Ecco una rielaborazione dettagliata e ben strutturata della nota stampa di Enrico Varriale in seguito al suo licenziamento dalla Rai, un evento scaturito dalla condanna in primo grado nell’ambito di un procedimento penale che lo vedeva imputato per stalking e lesioni. La dichiarazione del giornalista sportivo affronta con fermezza non solo la questione giudiziaria e le sue ricadute professionali, ma anche le precedenti tensioni con l’azienda radiotelevisiva di Stato, delineando un quadro complesso di controversie legali e professionali.
La nota si apre con una decisa presa di distanza dalle indiscrezioni giornalistiche che, citando presunte “fonti ufficiose Rai“, avrebbero suggerito motivazioni ulteriori, e a suo dire tendenziose e provocatorie, alla base della decisione aziendale di interrompere il rapporto di lavoro. Varriale, nel farlo, invoca un cardine fondamentale del diritto costituzionale italiano: il principio della presunzione di innocenza, che deve essere garantito a ogni cittadino fino al terzo grado di giudizio, ovvero fino alla sentenza definitiva della Corte di Cassazione. Questa premessa funge da scudo contro quella che percepisce come una prematura esecuzione mediatica e un tentativo di delegittimazione della sua posizione. Ribadendo con forza la sua totale fiducia nei Giudici e nel sistema di giustizia, il giornalista si dichiara fermamente convinto di poter dimostrare la fondatezza delle proprie ragioni, sia in ambito penale che in quello giuslavoristico. In tal senso, conferma di aver già conferito mandato ai suoi legali per l’impugnativa del licenziamento, segnando l’inizio di una nuova e determinata battaglia legale.
La controversia penale e il ricorso in appello
Affrontando nel dettaglio le specifiche vicende giudiziarie che hanno portato alla risoluzione del suo contratto con la Rai, Enrico Varriale opera una distinzione cruciale tra i due procedimenti. Riguardo al caso che ha condotto al licenziamento, il giornalista ricorda che esiste allo stato attuale una sentenza di condanna in primo grado a dieci mesi di reclusione, con l’importante specifica della pena sospesa e della non menzione nel casellario giudiziale.
Questo è un dettaglio non irrilevante, in quanto la sospensione condizionale della pena è spesso subordinata alla valutazione positiva del giudice sulla possibilità che l’imputato si astenga dal commettere ulteriori reati, e la non menzione limita la diffusione di tale precedente. Varriale, tuttavia, non si arrende a questo verdetto, sottolineando di aver già prontamente proposto appello contro la sentenza. L’appello, nel sistema giuridico italiano, permette di riesaminare il merito della decisione di primo grado, offrendo una nuova opportunità di dimostrare l’innocenza o di ottenere una pena differente.
Il secondo procedimento e la fase istruttoria
Successivamente, il giornalista si sofferma su un secondo e distinto caso penale, chiarendo che in questa vicenda la situazione processuale è ancora in una fase preliminare. Egli specifica, infatti, che il processo non ha ancora concluso la fase istruttoria, il momento in cui vengono raccolte tutte le prove e si forma il quadro probatorio.
Ancora più significativo è il dettaglio che lui stesso non è ancora stato ascoltato dal Giudice, un elemento che enfatizza come il procedimento sia lungi dall’essere definito o da aver raggiunto una sentenza. Con questa precisazione, Varriale mira a evidenziare la prematurità di qualsiasi considerazione aziendale o mediatica che voglia trarre conclusioni definitive da un processo ancora in fase di piena istruttoria. Il sottotesto è chiaro: utilizzare un procedimento in corso e non definito come motivo di licenziamento appare, a suo avviso, un atto di eccessivo anticipo rispetto all’accertamento definitivo dei fatti.
La dequalificazione professionale e la condanna della Rai
La nota stampa assume un tono ancora più polemico e rivelatorio nel momento in cui Varriale svela un ulteriore e significativo dettaglio che getta luce sui suoi turbolenti rapporti con la televisione di Stato negli anni precedenti. Il giornalista, infatti, rivela che la Rai è stata formalmente condannata dal Tribunale di Roma lo scorso 22 gennaio 2025 per la dequalificazione professionale operata nei suoi confronti. Questa condanna è il risultato di un’azione legale intentata da Varriale per denunciare il fatto che, negli ultimi quattro anni, l’azienda gli avrebbe totalmente impedito di svolgere il suo lavoro in linea con il suo profilo professionale e contrattuale.
Varriale, tuttavia, introduce un elemento di contraddizione nella gestione del suo rapporto di lavoro: pur avendogli di fatto impedito di lavorare, la Rai non lo ha mai formalmente sospeso cautelarmente dal servizio, riconoscendo, implicitamente, che non sussisteva motivazione per un provvedimento così drastico. Questo fatto rende ancora più stridente il successivo licenziamento. Il giornalista sottolinea come la sentenza di condanna per dequalificazione, sebbene sia stata solo parzialmente ottemperata dall’Azienda, non fosse stata da lui resa pubblica fino ad ora.
La motivazione di tale riserbo, come da lui stesso dichiarato, risiede nel profondo rispetto che egli ha sempre nutrito per la Rai, della quale si considera parte da quasi 40 anni. Rivelando questo precedente giudiziario, Varriale non solo rafforza la sua posizione nella battaglia giuslavoristica che si appresta a ingaggiare contro il licenziamento, ma mira anche a dimostrare un preesistente comportamento aziendale lesivo della sua dignità professionale, suggerendo che l’interruzione del rapporto di lavoro non sia un evento isolato, ma l’epilogo di un rapporto logorato e conflittuale da tempo. La battaglia legale tra il giornalista e la Rai si prospetta quindi come un complesso scontro su più fronti, che intreccia il diritto penale con le norme del diritto del lavoro.