
C’è un paradosso che racconta meglio di ogni analisi la distanza tra la realtà della guerra e la rappresentazione italiana della guerra. A Gaza, dopo mesi di devastazione, si apre finalmente uno spiraglio di pace: Hamas accetta il piano di Trump, Israele ferma i bombardamenti, la diplomazia torna a respirare. E mentre nel Medio Oriente si parla di tregua, in Italia si continua a gridare alla guerra. La distanza non è solo geografica, ma mentale. Lì si tratta, qui si inscena. Lì si decide la vita, qui si recita l’indignazione.
Il movimento pro-Palestina, le sigle sindacali, i partiti della sinistra radicale restano fermi su un copione ormai vuoto, fatto di scioperi, cortei, blocchi, e di una retorica che non incide su nulla. La Flottila è diventata un mito domestico, un feticcio identitario, un simbolo buono per giustificare ogni protesta. Ma mentre in Medio Oriente si discute di disarmo, qui si discute di treni fermi e strade bloccate. L’Italia vive il conflitto come se fosse una rappresentazione teatrale, una tragedia da consumare nelle piazze, non nei fatti.
La pace, intanto, si tratta sul campo
Hamas ha annunciato di voler rilasciare tutti gli ostaggi israeliani in cambio di un cessate il fuoco e dell’avvio di una nuova amministrazione palestinese “tecnica”, composta da personalità indipendenti. Israele ha sospeso le operazioni militari per consentire l’avvio dei colloqui, segnale che qualcosa, per la prima volta da mesi, si muove davvero. Trump, che ha imposto la cornice di questo accordo, ha definito il passo “una prova di maturità” e ha chiesto a Gerusalemme di rispettare la tregua. Tutti segnali di una trattativa reale, che può cambiare la vita di milioni di persone e ridisegnare la geografia politica dell’intera regione.
Sul terreno le diplomazie si muovono in silenzio, tra delegazioni, bozze e negoziatori. È una fase delicatissima, che richiede prudenza e compromesso. Lo confermano anche i comunicati ufficiali del Dipartimento di Stato USA e le dichiarazioni del Ministero degli Esteri israeliano, che parlano apertamente di “progressi significativi” verso un cessate il fuoco stabile. Persino il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha accolto con favore l’iniziativa americana, sottolineando la necessità di una transizione politica a Gaza sostenuta dai Paesi arabi. A questo si aggiunge il racconto dei media internazionali, come nell’approfondimento pubblicato dal Guardian sulla risposta di Hamas al piano di Trump, che descrive una svolta inattesa ma concreta.
Una bolla tutta italiana
In Italia, però, la scena è un’altra. Si parla ancora di “Flottila”, come se il destino di Gaza dipendesse da un corteo a Roma. Si manifesta con rabbia mentre a Gaza, paradossalmente, si discute di pace. È un rovesciamento grottesco: chi dice di sostenere il popolo palestinese oggi protesta contro la tregua che quel popolo invoca. C’è qualcosa di profondamente autoreferenziale in questo attivismo che confonde la solidarietà con la militanza rituale. Si protesta non per incidere, ma per esistere dentro una causa. Ogni bandiera sventolata diventa un modo per appartenere, non per capire. Ogni sciopero, un atto di autoaffermazione. È il trionfo dell’inutilità travestita da impegno.
L’Italia trasforma la tragedia di Gaza in una metafora delle proprie ossessioni, in un’occasione per ripetere se stessa. Le manifestazioni, in teoria, dovrebbero servire a dare voce a chi non ne ha. In pratica, oggi servono solo a dare voce a chi non vuole ascoltare. La politica italiana – da sinistra a sinistra – usa Gaza come un argomento identitario, un campo di battaglia simbolico dove contare bandiere e distinguersi. Non c’è riflessione, non c’è analisi, non c’è misura. C’è solo l’urgenza di schierarsi, di mostrarsi “contro”.
La pace è fatta di silenzi, non di slogan
È un errore antico e tutto italiano: scambiare la piazza per la diplomazia, l’urlo per la soluzione. La pace si costruisce nei negoziati, nei compromessi, nelle scelte difficili e spesso impopolari. Oggi la stanno discutendo Hamas, Israele e Trump, con la mediazione di governi arabi e occidentali, non chi blocca un treno a Milano o un’autostrada a Roma. Ed è questo il punto che nessuno sembra voler vedere: chi urla di più non è mai chi cambia le cose.
Il risultato è un Paese che parla di Gaza ma non sa dove sia Gaza, che invoca la pace ma non ascolta chi la sta cercando davvero. Mentre i leader si confrontano sul futuro del Medio Oriente, noi restiamo incollati al presente, intrappolati in una bolla nazionale fatta di rabbia e di narcisismo politico. Lo ha sintetizzato efficacemente un’analisi pubblicata da Le Monde: “In Europa la causa palestinese è diventata un linguaggio di appartenenza, non un progetto politico”.
L’Italia manifesta, il mondo tratta. E mentre la storia volta pagina, noi restiamo fermi alla sua copertina.