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Dentro il piano segreto di Trump per Gaza: promesse, miliardi e troppe mine nascoste

Pubblicato: 05/10/2025 08:56

La proposta di Donald Trump per mettere fine alla guerra a Gaza è più di un piano diplomatico: è una prova di forza geopolitica, un banco di test per la sua leadership ritrovata e per il nuovo ordine mondiale che gli Stati Uniti vogliono imporre. Si tratta di un documento in venti punti, accompagnato da una dichiarazione diretta dello stesso Trump: “Gli israeliani devono fermare subito i bombardamenti. La pace è possibile, ma va costruita con coraggio”.

Il piano, elaborato con il sostegno di consiglieri vicini a Jared Kushner, prevede uno stop immediato ai bombardamenti, la liberazione di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas, la creazione di un’autorità tecnocratica che governi la Striscia sotto controllo internazionale, e un programma di ricostruzione finanziato da Paesi arabi e da un fondo multilaterale a guida statunitense. Ogni fase è vincolata al rispetto della precedente: cessate il fuoco, rilascio ostaggi, ritiro militare progressivo, ingresso degli aiuti umanitari, smantellamento delle strutture militari.

Secondo Politico, si tratterebbe del primo piano americano che affronta Gaza come “una questione amministrativa e non ideologica”. Ma proprio questa impostazione tecnica, quasi manageriale, è la chiave della sua ambiguità: ridurre un conflitto politico a una questione di governance significa ignorare la dimensione identitaria e nazionale che lo alimenta da decenni.

Il piano ha raccolto consenso prudente in Europa, dove la Commissione europea lo ha definito “un passo pragmatico”, ma ha diviso i governi arabi: Egitto e Giordania hanno espresso sostegno condizionato, mentre Qatar e Turchia hanno criticato la mancanza di rappresentanza palestinese diretta. In Israele, il premier Netanyahu ha accettato di “valutare la proposta” ma con due condizioni: il mantenimento di una cintura di sicurezza lungo il confine e la garanzia che nessuna milizia possa riarmarsi.

Le ambiguità del piano

Il punto più fragile è il disarmo di Hamas, condizione indispensabile per Israele ma quasi impossibile da attuare senza un riconoscimento politico e senza la fine dell’occupazione. Come sottolinea The Guardian, la proposta di Trump sposta il disarmo all’ultima fase del processo, ma non indica chi dovrà verificarlo né con quali strumenti. Gli osservatori temono che si tratti di una formula destinata a non essere mai applicata, utile solo per mantenere il consenso temporaneo delle parti.

Anche il ritiro israeliano appare incerto. Il documento parla di un ritiro “progressivo” delle truppe, ma lascia spazio alla possibilità di una “zona di sicurezza” permanente lungo il confine, sotto controllo militare israeliano. Una clausola che, di fatto, mantiene lo status quo e trasforma il cessate il fuoco in un congelamento della guerra. È un punto che fa discutere anche dentro l’esecutivo israeliano, dove le forze più radicali minacciano di far cadere il governo se verranno fatte concessioni.

Altro nodo irrisolto è la gestione transitoria della Striscia. L’idea di una “autorità tecnica” internazionale composta da esperti palestinesi, funzionari ONU e rappresentanti arabi appare sulla carta neutra, ma rischia di essere percepita come un commissariamento esterno. Senza un percorso politico verso uno Stato palestinese, la ricostruzione diventerebbe solo un’operazione economica e simbolica. Secondo Al Jazeera, molti analisti nel mondo arabo vedono in questo meccanismo un modo per “neutralizzare la causa palestinese sostituendola con un problema amministrativo”.

Le tensioni sono alimentate anche dal capitolo economico del piano. Trump ha proposto un fondo da 50 miliardi di dollari per la ricostruzione, ma metà delle risorse sarebbe vincolata alla partecipazione di aziende americane e israeliane. Per Hamas e per molti paesi musulmani, questa clausola rappresenta una forma di neocolonialismo economico.

Le ragioni dell’ottimismo

Nonostante le ombre, ci sono motivi per credere che questa volta la mediazione possa funzionare. La pressione internazionale è fortissima dopo oltre venti mesi di guerra, e la Casa Bianca ha deciso di legare la credibilità del proprio mandato alla riuscita del piano. La sequenza a fasi brevi e verificabili potrebbe garantire risultati concreti e immediati: la liberazione scaglionata degli ostaggi, la riapertura dei valichi, il flusso costante di aiuti monitorati da osservatori internazionali.

Il coinvolgimento dei Paesi arabi moderati, in particolare Egitto e Arabia Saudita, secondo Times of Israel, riduce il rischio di un vuoto di potere nella Striscia e rafforza la legittimità del processo. In cambio del loro impegno, Washington avrebbe promesso investimenti infrastrutturali nei corridoi energetici e logistici che collegano il Mediterraneo al Golfo Persico.

Un ulteriore elemento di ottimismo viene dal fronte interno statunitense. Trump, rieletto con una piattaforma centrata su “pace attraverso la forza”, ha bisogno di un successo immediato per legittimare la sua politica estera. L’idea di un “Trump Peace Deal” per Gaza, se portata a compimento, gli garantirebbe un trionfo mediatico paragonabile agli “Accordi di Abramo”.

Infine, la disponibilità di Hamas ad affidare la gestione civile della Striscia a un ente indipendente rappresenta, di per sé, una svolta storica: è la prima volta che il movimento riconosce, seppur implicitamente, la possibilità di un’amministrazione palestinese non militare.

Il fronte del pessimismo

Gli scettici, però, vedono nel piano un’operazione più politica che diplomatica. Le operazioni militari israeliane non si sono fermate, e ogni nuovo bombardamento rischia di far crollare la fragile tregua. Le divisioni interne a Gerusalemme, con una parte della destra contraria a ogni concessione, e quelle dentro Hamas, dove le brigate operative agiscono spesso senza coordinamento, potrebbero far deragliare il piano in poche ore.

La mancanza di un percorso chiaro verso i due Stati è un’altra falla evidente. Senza una prospettiva politica di lungo periodo, la ricostruzione rischia di diventare una semplice gestione del disastro. Come scrive Le Monde, il pericolo è che Gaza resti un territorio amministrato ma non sovrano, dove la comunità internazionale paga il prezzo del silenzio.

C’è poi il tema della credibilità americana. Dopo anni di oscillazioni e di sostegni alterni, molti osservatori ritengono che Washington non sia più percepita come mediatore imparziale. L’assenza dell’Unione europea dal tavolo negoziale e la frammentazione del fronte arabo rendono difficile creare un consenso stabile.

Infine, pesa l’incognita della realtà sul terreno: Gaza è devastata, la popolazione è allo stremo, le strutture sanitarie e idriche sono distrutte. Anche con miliardi di dollari, ricostruire senza stabilità politica è quasi impossibile. Il rischio, come ammettono anche diplomatici statunitensi, è che il piano di Trump si trasformi nell’ennesimo documento ambizioso destinato a fallire nel momento in cui dovrà essere applicato.

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