
La sconfitta del centrosinistra in Calabria non è una casualità, ma la conseguenza di una rotta sbagliata, testarda, ostinatamente scollegata dal Paese reale. Non si tratta solo di una battaglia elettorale persa, ma di un’intera visione del mondo che non funziona più. Una sinistra che si specchia nelle proprie piazze, che cerca consenso nella rabbia e nella denuncia, che confonde la protesta per partecipazione e l’estremismo per coerenza, non è più in grado di rappresentare nessuno.
Da mesi si ripete la stessa scena: bandiere, cori, cartelli, e la convinzione di essere “dalla parte giusta”. Ma quelle piazze per Gaza non sono luoghi di pace — sono piazze oggettivamente estremiste, dove si grida contro Israele, si giustifica il terrorismo e si legittimano atti di violenza. Si marcia accanto a chi inneggia ad Hamas, a chi definisce il 7 ottobre “resistenza”, a chi cancella il dolore delle vittime in nome di un odio ideologico travestito da empatia. E sabato, in una delle manifestazioni principali, è comparso persino uno striscione con la scritta “7 ottobre giornata di resistenza palestinese”: un segnale inequivocabile di quanto la linea sia stata superata da tempo.
Il moralismo che si trasforma in isolamento
Accodarsi a tutto questo non porta in paradiso. E nemmeno al governo. Porta solo a un isolamento politico che ormai è diventato sistemico. Gli italiani, anche quelli che non votano a destra, non sopportano più il moralismo senza misura, la superiorità etica di chi predica pace accanto a chi invoca la guerra, di chi parla di diritti ma tace sulla libertà.
La sinistra ha smesso di essere forza di governo quando ha scelto di essere forza di testimonianza. Ha rinunciato a parlare al Paese reale per parlare ai propri movimenti, ai propri cortei, ai propri hashtag. È la logica del recinto: chi non ripete lo slogan, chi non partecipa alla liturgia dell’indignazione, è escluso. Ma una nazione non si guida con le purezze morali, si guida con la responsabilità.
In Calabria, come nel resto d’Italia, l’elettore medio non si riconosce più in questa postura. Non vuole essere rappresentato da chi giudica, ma da chi costruisce. Da chi cerca soluzioni, non colpevoli. La gente comune non vuole essere arruolata in guerre ideologiche importate dall’estero: vuole strade, lavoro, sicurezza, futuro.
Il cortocircuito identitario
La sinistra continua a dire “pace”, ma frequenta piazze che inneggiano alla “resistenza armata”. Dice “dialogo”, ma pratica l’esclusione. Parla di libertà e poi marcia accanto a chi la nega. È un cortocircuito che non si può più mascherare. L’errore non è la solidarietà verso i civili di Gaza — è la cecità di chi non vede più la differenza tra umanità e fanatismo.
Nel linguaggio politico e mediatico di questi mesi, ogni condanna del terrorismo è diventata “ambigua”, ogni difesa di Israele un “atto di parte”. È la logica rovesciata dell’ideologia, che sostituisce la realtà con la narrazione. Ma l’Italia non vive di narrazioni: vive di fatti. E i fatti, in Calabria come altrove, dicono che il centrosinistra non è più credibile agli occhi di chi vuole serietà, non rabbia.
La sconfitta perpetua
La Calabria è stata solo l’ultima conferma. Non si può vincere parlando ai margini, perché il Paese non è marginale. Non si può governare con la retorica dell’opposizione permanente, perché il governo richiede equilibrio, non furia. E non si può pretendere di incarnare la democrazia mentre si simpatizza per chi la disprezza.
La sinistra ha bisogno di un bagno di realtà: non bastano i tweet, non bastano i cortei, non bastano gli applausi di chi già la pensa allo stesso modo. Serve tornare alla politica, al linguaggio della responsabilità, al rispetto per la verità. Perché chi si accoda a chi inneggia ad Hamas non è “neutrale”: è complice di un clima culturale tossico che spaventa gli italiani e li allontana.
Il voto calabrese lo ha detto con chiarezza: l’Italia non è quella delle piazze ideologiche, non è quella del vittimismo militante, non è quella dell’odio mascherato da giustizia. È un Paese moderato, concreto, che vuole equilibrio e dignità. Finché la sinistra non lo capirà, continuerà a perdere. E continuerà a chiamarlo “male del mondo”, mentre è solo il riflesso del proprio fallimento.