
7 ottobre 2023, sabato, Yom Kippur, deserto del Negev. In una spianata vicina al kibbutz di Re’im, a cinque chilometri dal confine con la Striscia di Gaza, tremila ragazzi israeliani, terminata la festa delle capanne, partecipano al Nova Music Festival. Accadeva esattamente due anni fa, all’improvviso.
All’alba le brigate Ezzedin al-Quassam dell’organizzazione terroristica Hamas sono entrate in azione. Dal cielo e da terra. 1200 le vittime. Più di 250 rapiti. Forse una ventina di loro sono ancora vivi e in ostaggio di Hamas. Alcune decine sono ormai morti. I familiari piangono e sperano ancora di abbracciare i vivi e di poter onorare i morti.
Come è noto Hamas è una organizzazione jihadista. Venti anni fa sconfisse militarmente le forze dell’Autorità Nazionale Palestinese, dopo il ritiro di Israele dalla Striscia, che da allora governa. Come si sa, per statuto, Hamas si pone come obiettivo finalistico la cancellazione di Israele dalle carte geografiche, da quella che l’Iran, suo finanziatore, chiama “entità sionista”. Israele per Teheran e per Hamas non esiste e non deve esistere. La Palestina – che storicamente non è mai esistita – per Hamas deve insediarsi dal fiume al mare, cioè dal Giordano al Mediterraneo.
La sorpresa del 7 ottobre e l’errore di Israele
Dunque non deve sorprendere la mattanza del 7 ottobre. Sorprese, invece, che Israele fosse stato preso alla sprovvista. Perché era in realtà prevedibile. Hamas ha affermato che si è trattato di una risposta alla “profanazione della moschea di al-Aqsa”, cioè l’intervento delle forze di sicurezza israeliane – nel giugno precedente – e l’arresto di 450 palestinesi. Una reazione “sproporzionata”, come si usa definire da mesi la guerra di Israele contro Hamas.
A due anni di distanza questa “narrazione” suona poco convincente. Qualcosa di molto più grave, dal punto di vista di Hamas, e soprattutto dell’Iran, stava accadendo in Medio Oriente. Erano infatti in corso serrati colloqui tra Israele e Arabia Saudita per instaurare relazioni diplomatiche, nel segno degli accordi di Abramo.
Il 7 ottobre è dunque stata un’azione politica e militare decisa a tavolino, probabilmente a Teheran. A sorprendere fu l’incapacità dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano per l’interno, di prevenire l’attacco. Un errore grave che ricade sul governo guidato dal premier Netanyahu, che da mesi era in difficoltà per le proteste popolari contro la riforma del sistema giudiziario.
Un errore, grave, che peserà sul futuro politico di Netanyahu. Resta il fatto che, per l’ennesima volta dalla sua fondazione, Israele è stato aggredito e non poteva che rispondere militarmente.
L’Occidente tra propaganda e speranze
A farne le spese sono stati anche i gazawi, anch’essi vittime di Hamas, che finora, tra una trattativa fallita e l’altra, non ha mai accettato di restituire tutti gli ostaggi, vivi o morti, continuando a usare i civili come scudi umani. Quando ha accettato uno scambio ha preteso il rilascio di migliaia di banditi palestinesi condannati e detenuti.
Accusare Israele di intenti genocidari nei confronti dei gazawi è folle, checché ne dica quell’invasata di Francesca Albanese, che sta girando l’Italia per raccogliere applausi. Di genocidio si può parlare – per come l’Onu lo ha definito dopo la Shoah – quando l’obiettivo è sterminare un popolo, per ragioni razziali o religiose, non quando una guerra si combatte contro un nemico che ha attaccato.
Le guerre colpiscono, purtroppo, anche i civili, come civili erano peraltro i giovani del Nova Festival. Israele ha condotto la sua guerra prima dal cielo – missili contro missili, droni contro droni – e poi sul campo. Ha sconfitto Hezbollah in Libano e Hamas nella Striscia.
Non per caso nessuno degli Stati arabi e islamici dell’area è intervenuto a difesa di Hamas, e si son ben guardati dal accogliere profughi. Piuttosto hanno tentato, inutilmente, di costringere Hamas ad accettare tregue durature, anche per motivi umanitari.
Due anni dopo, la speranza di un nuovo equilibrio

Si è detto che Israele, invadendo la Striscia, è andato oltre la legittimità. Si tratta di una mezza verità. È vero, ma altrettanto vero è che Hamas, contrariamente a Israele, ha avuto la capacità di gestire una “verità” mediatica, lontana dalla verità fattuale. Ha così avuto buon gioco nel far rinascere l’antisemitismo nel mondo occidentale, alimentando l’odio verso Israele “Stato assassino”.
Anche in Italia, azioni antisemite si sono moltiplicate, nelle scuole, nelle università, nelle strade, in genere nella pubblica opinione. Un antisemitismo dilagante, mascherato da pacifismo, con la sinistra – politica e sindacale – che ha cavalcato l’onda, accusando il governo di sostenere l’Israele “genocidario”.
In realtà il governo italiano non ha disconosciuto Israele, ha criticato Netanyahu e i suoi ministri estremisti, come ha fatto gran parte del popolo israeliano. Ha ribadito il diritto di Israele di vivere in pace e di difendersi se attaccato. Non si è sottratto all’aiuto umanitario ai gazwui, condannando fermamente Hamas e definendo il 7 ottobre come una strage terroristica perpetrata da una organizzazione terroristica.
Due anni dopo siamo a una svolta? L’iniziativa del presidente americano Trump, apprezzata anche da Papa Leone XIV, concordata con Egitto, Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Cisgiordania e Turchia, avrà successo? Trump è stato durissimo anche con Netanyahu, non solo con Hamas. È giunto il momento di liberare gli ostaggi e di disegnare nuovi equilibri per il Medio Oriente, cacciando Hamas dalla Striscia e i suoi vertici residui dall’area.

Esiliati? Si tratta di capire se uno Stato islamico sia disposto ad accoglierli come “ospiti” non attivi. Il precedente è noto. Settembre 1982. Presidente degli USA era Ronald Reagan, che aveva vinto le elezioni contro Jimmy Carter, travolto dalla crisi iraniana. Israele aveva invaso il Libano meridionale dopo l’attacco dell’OLP, appoggiata dalla Siria, nel nord della Galilea.
Reagan ottenne una tregua. Ad Arafat e al vertice della OLP fu concesso di lasciare il Libano e di trasferirsi in Tunisia, dove tuttavia rimasero attivi. Trump riuscirà a trovare una nuova “Tunisia”? I lavori sono in corso. Si può sperare. Dobbiamo sperare.
Resta il dolore per le vittime innocenti del Nova Festival. E per gli innocenti morti di Gaza. Quanti siano non lo sapremo mai. Il presunto ministero della Salute di Hamas, un ufficio a Doha, ogni mattina spara le sue cifre, prese per buone dai media occidentali, senza alcun riscontro.
Hamas ha perso la guerra militare. Ma ha vinto quella mediatica. Una colpa che ricade su un Occidente smarrito.