
Certe tensioni politiche non nascono all’improvviso. Spesso covano sotto la superficie, si manifestano in sussurri e distinguo, fino a esplodere in un momento preciso, quando un nome o una scelta diventano il simbolo di uno scontro più profondo. È ciò che sta accadendo oggi all’interno del Partito Democratico, dove una questione internazionale si è trasformata in uno specchio dei conflitti interni al partito: Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi, è al centro di un acceso dibattito che rischia di lacerare ulteriormente l’equilibrio, già precario, tra le varie anime del centrosinistra.
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In un contesto politico sempre più segnato da fratture ideologiche e radicalizzazioni, la figura di Albanese è diventata un punto di riferimento per una parte della base militante, ma anche un motivo di allarme per chi teme che l’identità del partito venga sacrificata sull’altare di posizioni polarizzanti. Le parole, i gesti, le scelte di rappresentanza non sono più solo atti simbolici: diventano terreno di scontro sulla visione stessa del futuro della sinistra.
Francesca Albanese al centro dello scontro
È nel cuore del Partito Democratico che il nome di Francesca Albanese sta generando forti tensioni. La relatrice speciale dell’Onu, divenuta nota per le sue prese di posizione a sostegno della causa palestinese, è vista da una parte del partito come una figura da valorizzare, ma da altri come un elemento divisivo e controproducente, specie in un momento in cui l’opinione pubblica italiana è profondamente spaccata sulla questione mediorientale.
A guidare il fronte critico è l’europarlamentare Pina Picierno, da tempo in rotta di collisione con la leadership di Elly Schlein. In un’intervista al Foglio, ha denunciato un clima in cui “l’intolleranza politica diventa collante“, affermando che la presenza di Albanese rafforza una tendenza pericolosa fatta di narcisismo, radicalismo e arroganza, lontana dai valori del confronto democratico. Ha inoltre definito sbagliata l’eccessiva commistione tra partiti e movimenti, sottolineando come le piazze vadano condivise, non assecondate, quando si tratta di temi delicati come Gaza.

Diplomazia o protagonismo?
A intervenire nel dibattito è stato anche il senatore Filippo Sensi, che ha spostato l’attenzione sulla necessità di sostenere il piano di pace in Medio Oriente. “Chi ha a cuore la popolazione di Gaza”, ha detto, “dovrebbe concentrarsi su un cessate il fuoco e sulla restituzione degli ostaggi, piuttosto che inseguire il protagonismo individuale”. Sensi non ha mai citato direttamente Albanese, ma il riferimento alla necessità di evitare distrazioni nella trattativa diplomatica è apparso chiaro. Per lui, oggi serve una sinistra che guardi più al modello del premier australiano, capace di battere la destra con serietà e credibilità, piuttosto che con figure controverse.
Il riferimento alla relatrice Onu si fa ancora più esplicito alla luce di quanto avvenuto recentemente nel programma televisivo “In Onda”, dove l’uscita di scena polemica di Albanese ha alimentato la polemica, soprattutto per l’accusa rivolta alla senatrice Liliana Segre, definita “non lucida” in relazione al conflitto in corso. Un episodio che ha avuto una forte eco mediatica e che ha costretto più di un esponente del Pd a prendere posizione.
Malumori anche tra sindaci ed eurodeputati
Il malessere interno al partito non si limita al Parlamento. Anche figure istituzionali come la sindaca di Genova, Silvia Salis, hanno preso le distanze. La sua mancata partecipazione a un convegno in programma oggi – ufficialmente per “altri impegni”, ma precedentemente annunciata – è apparsa come una presa di posizione silenziosa, segnale del disagio crescente.
Altre voci si sono aggiunte, come quella dell’europarlamentare Elisabetta Gualmini, che ha espresso perplessità sul conferimento della cittadinanza onoraria ad Albanese da parte di alcune amministrazioni locali, tra cui l’ultima a Bologna. “Una figura divisiva, che radicalizza il dibattito politico e i gesti”, ha dichiarato, sottolineando che il ruolo di un sindaco è unire, non alimentare polarizzazioni.
Emblematico anche il caso citato dalla stessa Gualmini a Reggio Emilia, dove Albanese avrebbe mostrato disappunto plateale nei confronti di un sindaco che, parlando pubblicamente, aveva osato citare la parola “ostaggi”. Una reazione definita “penosa e inaccettabile”, che secondo Gualmini rappresenta un crescendo di estremismo incompatibile con il dialogo democratico.

Un simbolo di spaccatura interna
La vicenda Francesca Albanese si è trasformata in breve tempo in una miccia politica. Al di là del merito delle posizioni espresse sulla questione palestinese, ciò che preoccupa molti all’interno del Pd è la trasformazione di questa figura in un riferimento politico stabile, o peggio, in una bandiera identitaria per una parte del partito. In gioco non c’è solo la linea sulla politica estera, ma l’equilibrio interno tra realismo riformista e radicalismo movimentista.
Questa frattura, che si innesta su divisioni già esistenti, rischia di allargarsi. Le critiche a Francesca Albanese non sembrano tanto legate ai contenuti del suo mandato Onu, quanto alla sua gestione pubblica del ruolo e al modo in cui si relaziona con il dibattito italiano, spesso con toni considerati esasperati anche da chi condivide la sua preoccupazione per la crisi a Gaza.
Il nodo è ora tutto politico: la leadership di Elly Schlein è chiamata a decidere se assecondare questa spinta radicale o mediare per tenere unito il partito, in un momento storico in cui la sinistra italiana è alla ricerca di una nuova identità. E il nome di Albanese rischia di diventare il simbolo, nel bene e nel male, di una scelta che il partito non potrà più rimandare.