
Un nuovo equilibrio per il Medio Oriente, costruito sull’asse tra Washington, Tel Aviv e le monarchie del Golfo. È questo il cuore del piano di pace per Gaza che Donald Trump ha riportato sul tavolo dopo mesi di guerra e devastazione. L’obiettivo dichiarato è duplice: fermare i bombardamenti e rilasciare tutti gli ostaggi, ma dietro la cornice diplomatica si nasconde una strategia più ampia — economica, politica e militare — per ridisegnare l’intera regione.
Il presidente americano ha parlato di una «reale possibilità di pace», confermando di aver scritto personalmente alle famiglie degli ostaggi israeliani per assicurare che «tutti verranno riportati a casa» e che «Hamas sarà completamente distrutta». Al centro del piano, presentato in questi giorni ai mediatori di Egitto, Qatar e Turchia, c’è la sospensione dei raid israeliani, seguita da una tregua immediata che preveda lo scambio progressivo di ostaggi e prigionieri.
Il piano Trump, elaborato insieme al genero Jared Kushner, all’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff e all’ex premier britannico Tony Blair, punta a una riconfigurazione politica e territoriale della Striscia di Gaza. L’accordo, che verrà discusso al vertice di Sharm el-Sheikh, prevede una fase di ritiro graduale dell’Idf – l’esercito israeliano – da alcune aree già controllate, per consentire la creazione di zone umanitarie sicure sotto supervisione internazionale.
Secondo le bozze circolate tra i negoziatori, la ricostruzione di Gaza sarà affidata a un fondo multilaterale sostenuto dagli Stati Uniti e dai Paesi del Golfo, che investiranno miliardi di dollari in infrastrutture, energia e sanità. In cambio, Israele otterrà garanzie di sicurezza e un impegno formale da parte dei mediatori arabi per disarmare Hamas e impedirne il ritorno politico nella Striscia.
Dietro la diplomazia, c’è anche un progetto di soft power economico. Trump punta a estendere gli Accordi di Abramo, includendo nel nuovo patto paesi come Arabia Saudita, Qatar e Oman, in un’alleanza strategica che unisca interessi energetici e militari sotto l’ombrello americano. La ricostruzione di Gaza diventerebbe così un grande business internazionale, con società occidentali e fondi del Golfo pronti a spartirsi la futura rinascita economica della regione.
Ma il piano suscita anche forti critiche. Da una parte, Israele teme che la tregua possa rafforzare Hamas e ridurne la pressione militare; dall’altra, il movimento islamista chiede garanzie scritte sul ritiro totale delle truppe israeliane e sulla fine del blocco economico. La Santa Sede, attraverso il cardinale segretario di Stato, ha invitato al dialogo, mentre Papa Leone – interpellato sulle tensioni legate all’attacco all’ambasciata israeliana presso il Vaticano – ha preferito non commentare: «Il cardinale ha espresso l’opinione della Santa Sede».
Resta il fatto che per la prima volta dall’inizio del conflitto, Washington sembra voler assumere un ruolo diretto nel negoziato, spostando il baricentro dalla guerra alla diplomazia. E in un Medio Oriente esausto e frammentato, il “piano Trump per Gaza” si presenta come l’ennesimo tentativo di chiudere un conflitto che, da decenni, continua a riaprirsi con nuove ferite.