
C’è un vecchio proverbio da osteria, che da secoli scivola di bocca in bocca con la stessa naturalezza con cui l’acqua cade dal cielo: “Piove, governo ladro!”. È una di quelle frasi che non hanno bisogno di spiegazioni, perché vivono di vita propria, sedimentate nella memoria popolare. Non importa chi sia al potere, non importa se a Palazzo Chigi ci sia un tecnico, un rivoluzionario, un vecchio democristiano o un giovane rampante. Non importa neppure se il Quirinale sia occupato da un saggio di Stato o da un presidente in cerca di applausi. Basta che scendano due gocce d’acqua e, puntuale come un riflesso, l’italiano trova subito il responsabile: il governo. A prima vista, sembrerebbe una sciocchezza. Una battuta da bar, buona per strappare una risata e nulla più. Ma, se ci si ferma un attimo, dentro quella battuta si scorge qualcosa di molto più serio: la cronica, incurabile sfiducia del popolo italiano verso chi lo governa. Non è odio, non è ribellione. È disincanto. È la convinzione che i governanti non siano mai una risorsa, ma un peso da sopportare. Un fastidio inevitabile, come l’influenza di stagione: ti colpisce, ti costringe a letto, e tu non puoi far altro che maledire la sorte.

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La diffidenza italiana
Che c’entra il governo con le nuvole? Nulla, naturalmente. Ma provate a dirlo all’uomo della strada. Provate a spiegargli che se un sottopassaggio va sott’acqua dopo due ore di temporale, la colpa non è del ministro dei Lavori pubblici, ma di chi, dieci o vent’anni prima, firmò un progetto scadente. Provate a convincerlo che se i tombini restano otturati, il problema non abita a Roma, bensì nel municipio sotto casa, dove nessuno si è preso la briga di mandarci due operai con un ferro ad aprirli. Non vi crederà. O meglio: vi crederà a metà, con una scrollata di spalle. Perché tanto, in fondo, per lui la colpa ricade sempre su “il governo”. È un riflesso antico, quasi antropologico. L’italiano non si è mai sentito governato, ma piuttosto vessato. Lo Stato non è percepito come la casa comune, ma come una caserma che impone tasse, multe e regole. Non un alleato, ma un avversario con cui barcamenarsi. Da qui discende un costume nazionale: ogni disgrazia diventa la prova che “lassù” qualcuno non fa il proprio mestiere. Cade la neve e i treni si fermano? È colpa del governo. Salta la luce per un blackout? Governo ladro. L’ombrello si rompe? Governo ladro anche quello.
Non importa se la logica si ribella: è la diffidenza a comandare. Una diffidenza così radicata che è diventata parte della nostra identità.
La verità che brucia
E tuttavia, a ben guardare, un fondo di verità c’è. È vero: nessun governo ha il potere di fermare le nuvole o di asciugare i fiumi. Ma avrebbe il dovere – questo sì – di impedire che un temporale paralizzi una città, che due gocce d’acqua trasformino le strade in laghi e i marciapiedi in trincee. Sarebbe compito della politica prevedere, programmare, investire, fare manutenzione. Parole semplici e chiare, che però da noi finiscono sempre nel cassetto delle buone intenzioni. Le si proclama in campagna elettorale con la stessa enfasi dei buoni propositi di Capodanno, salvo poi dimenticarle non appena si accendono le luci dell’Epifania. E così, a ogni acquazzone, la scena si ripete. Il cittadino guarda l’acqua che scende a torrenti, impreca, e butta lì il suo antico sfogo: “Piove, governo ladro!”. È una maledizione che contiene insieme rassegnazione e ironia. Sappiamo tutti che non cambierà nulla. Ma almeno ci resta il piacere di accusare qualcuno, anche quando innocente. La pioggia passa, i governi restano. E ladri o meno, continueremo a considerarli tali. Perché, come spesso accade in Italia, la realtà conta meno della tradizione. E la tradizione, quando piove, è quella di dare la colpa a chi governa. Sempre, comunque, dovunque.