
Le dinamiche in Medio Oriente sembrano davvero sul punto di cambiare. Dopo mesi di negoziati, Israele e Hamas hanno firmato oggi a Sharm el-Sheikh la prima fase dell’accordo di pace mediato da Donald Trump insieme a Egitto e Qatar. Il piano prevede un cessate il fuoco immediato, la liberazione dei venti ostaggi israeliani ancora in vita, la scarcerazione di circa duemila detenuti palestinesi e il ritiro parziale dell’Idf dalla Striscia, a eccezione di Rafah, ancora considerata area strategica. È un passo storico, ma fragile: la tregua durerà solo se tutte le parti rispetteranno i tempi previsti e se la governance di Gaza troverà un equilibrio condiviso.
I tentativi di pace per fermare la guerra erano stati molti e spesso inconcludenti. Oggi, però, l’accordo rappresenta un punto di svolta concreto, almeno nella forma. L’imprevedibilità della regione resta l’elemento dominante: potenze come Qatar, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Egitto e Iran continuano a esercitare un’influenza decisiva, capaci di rimescolare le carte e cambiare, in poche ore, i rapporti diplomatici. Sono loro, in fin dei conti, gli attori che possono decidere la sopravvivenza o il fallimento di ogni processo di pace.

Gli Accordi di Abramo e i nuovi equilibri
Consapevole dei rapporti di forza della regione, Donald Trump aveva già provato, nel suo primo mandato, a ricucire i legami tra Israele e i Paesi arabi. Il 15 settembre 2020, alla Casa Bianca, Bahrein, Emirati Arabi, Sudan e Marocco firmarono gli Accordi di Abramo, con l’obiettivo di normalizzare i rapporti diplomatici e aprire una nuova stagione di riconoscimento reciproco.
Quel percorso, però, è stato bruscamente interrotto dal conflitto tra Hamas e il governo di Benjamin Netanyahu. L’escalation di violenza ha incrinato la fiducia e congelato molti dei passi avanti compiuti in quegli anni. Il colpo di grazia arrivò il 9 settembre scorso, quando un raid di caccia israeliani colpì un quartiere di Doha, dove erano presenti generali di Hamas sostenuti dalla monarchia filo-islamista. Gli Emirati Arabi Uniti condannarono duramente l’attacco, dichiarando che “colpire il Qatar significa colpire tutti i Paesi arabi”. Quella frase mise in discussione l’intero impianto degli Accordi di Abramo e costrinse gli Stati Uniti a ricalibrare la propria strategia.

Trump, il Golfo e la nuova architettura della pace
Già nel suo primo mandato, Trump aveva avviato un vasto piano di relazioni nel Golfo, il cosiddetto “Trump tour”. Una delle prime tappe fu Riyad, dove vennero siglati accordi economici e di sicurezza per oltre 700 miliardi di dollari. Il presidente americano scelse di elevare Mohammad bin Salman a interlocutore privilegiato, attribuendo all’Arabia Saudita il ruolo di mediatore regionale e di cardine per la stabilità futura.
Nonostante il principe saudita abbia ribadito che il riconoscimento di Israele resta legato alla nascita di uno Stato palestinese, la cooperazione economica tra i due Paesi non si è mai interrotta. In Siria, intanto, Washington continua a sostenere il governo di transizione di Al-Jawlānī, con l’obiettivo di contenere l’influenza iraniana e garantire l’appoggio delle comunità druse, definite da Netanyahu “fratelli drusi”.
Il viaggio di Trump proseguì poi verso Qatar ed Emirati Arabi Uniti, con l’intento di creare un blocco compatto di Paesi arabi favorevoli a un cessate il fuoco strutturato. Quel disegno, oggi, trova una sua prima concretizzazione nell’accordo firmato a Sharm el-Sheikh: una tregua accompagnata da incentivi economici e da un piano di ricostruzione infrastrutturale finanziato da Stati Uniti, Arabia Saudita e Emirati.
Gli attori dietro la tregua
Le trattative di pace in corso in Egitto non sono che la superficie di un mosaico più ampio. Ogni documento, ogni dichiarazione riflette interessi incrociati e spesso divergenti. Gli Accordi di Abramo, in questo senso, restano un simbolo della complessità del quadro: testimoniano quanto sia difficile superare divergenze storiche e quanto fragile sia ogni passo verso la normalizzazione.
I punti principali del nuovo piano restano tre: cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi e demilitarizzazione graduale della Striscia. Ma il vero nodo è quello della futura governance. Il progetto prevede la creazione di un board of peace, un’autorità internazionale che potrebbe includere anche l’ex premier britannico Tony Blair, incaricata di gestire la transizione fino a nuove elezioni palestinesi.
L’accordo di oggi rappresenta, dunque, un fragile inizio. Una tregua più che una pace. La prova che in Medio Oriente nulla è mai definitivo e che spesso, a decidere le sorti della regione, non sono solo i leader che firmano i trattati, ma anche quei poteri che non compaiono mai sui giornali.