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Trump esulta e sogna di entrare nella storia: le mosse decisive per la tregua Israele-Hamas

Pubblicato: 09/10/2025 19:49

Donald Trump ha raggiunto il più grande risultato diplomatico del suo secondo mandato e, forse, di tutta la sua storia alla Casa Bianca. Un traguardo che, se confermato nei prossimi mesi, potrebbe riscrivere la sua eredità politica e rafforzare il suo peso internazionale in un momento chiave della sua carriera.

Il successo in Medio Oriente rappresenta per lui la prova definitiva per accreditarsi come mediatore e pacificatore, e spianargli simbolicamente la strada verso quel Premio Nobel per la Pace che ha sempre desiderato, ma che difficilmente otterrà, almeno quest’anno. Se ci riuscisse, sarebbe il quinto presidente americano a riceverlo, dopo Roosevelt, Wilson, Carter e Obama, e senza dubbio il più controverso della lista.

Resta però l’incognita del futuro, perché come spesso accade in Medio Oriente, gli equilibri sono fragili. L’accordo annunciato mercoledì sera potrebbe trasformarsi nell’ennesima tregua temporanea di un conflitto che dura dal 1948. Il giornalista Thomas Friedman, sul New York Times, ha paragonato l’impresa al cubo di Rubik che si sgretola tra le mani: serviranno concentrazione costante e capacità diplomatica quotidiana per tenere insieme i pezzi.

Per il momento, però, Trump e il suo team si godono il trionfo. Il merito va anche alla “strana coppia” dei negoziatori: il genero Jared Kushner, già artefice degli Accordi di Abramo, e Steve Witkoff, imprenditore e inviato speciale. Sorprende molti il fatto che l’amministrazione sia riuscita a passare da proposte fantasiose come la “Riviera di Gaza” a un piano articolato in 20 punti, capace di convincere sia Israele sia Hamas.

Fondamentale è stato il ruolo degli attori regionali arabi: Egitto, Arabia Saudita, ma soprattutto Qatar e Turchia, veri garanti della disponibilità di Hamas a trattare. Anche il coinvolgimento dell’ex premier britannico Tony Blair ha dato credibilità al piano. A questo si è aggiunta la debolezza improvvisa dell’Iran, colpito duramente da Israele (con l’aiuto americano) nella cosiddetta “Guerra dei 12 giorni”, che ha ridimensionato Hezbollah, Houthi e milizie sciite in Iraq.

Un punto di svolta è arrivato con il cambiamento del tono verso Netanyahu. Dopo anni di sostegno incondizionato, Trump ha mostrato irritazione per l’attacco israeliano ai leader di Hamas in Qatar. Durante un incontro il 29 settembre, lo ha costretto a scusarsi direttamente con il premier del Qatar dallo Studio Ovale, tenendo personalmente la cornetta della telefonata e facendo monitorare la chiamata da un funzionario qatariota. Un gesto che ha mostrato un netto cambio di passo.

Trump ha poi saputo sfruttare l’unità araba contro quell’attacco per consolidare il consenso attorno al suo piano. Ha fatto leva sulla tensione diplomatica per trasformarla in una spinta verso la pace, convinto che solo un equilibrio condiviso potesse portare a un risultato duraturo.

Infine, ciò che ha davvero fatto la differenza è stato il suo coinvolgimento personale. Trump ha scelto uno stile non convenzionale, lontano dalle formule della diplomazia classica, affidandosi al suo istinto, a una ristretta cerchia di consiglieri e alla fede nel potere delle relazioni personali. Un approccio che, almeno per ora, sembra aver pagato.

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