
Dopo la firma della pace tra Israele e Hamas, prende forma la nuova forza internazionale di sicurezza incaricata di stabilizzare la Striscia di Gaza. Sarà una missione inedita, guidata dagli Stati Uniti ma con una forte partecipazione araba. La priorità è garantire la tregua, soccorrere la popolazione e impedire che le milizie si riorganizzino dopo mesi di guerra.
Le prime unità ad arrivare saranno quelle di Egitto, Qatar, Turchia e forse Emirati Arabi, in una task force ristretta che darà avvio all’intervento. Nel giro di sei settimane seguirà un contingente più ampio, destinato a operare sotto il coordinamento americano. Il Pentagono sta allestendo un comando centrale temporaneo fuori dalla Striscia — inizialmente in territorio israeliano, poi forse spostato in Egitto o in Qatar — dove lavoreranno circa duecento militari statunitensi insieme a ufficiali egiziani, turchi e qatarioti.
La prima fase: macerie e aiuti
Il primo obiettivo sarà recuperare i corpi degli ostaggi israeliani ancora sepolti sotto le rovine e liberare le macerie di palazzi e tunnel bombardati. Si tratta di un compito tanto delicato quanto simbolico, perché segnerà l’avvio concreto della missione di pace. Allo stesso tempo le forze arabe dovranno garantire la protezione dei convogli umanitari, assicurando che cibo, acqua e medicinali raggiungano la popolazione stremata senza interferenze.
Entro metà novembre inizierà la seconda fase, dedicata alla ricostruzione. Gaza è stata distrutta quasi completamente e disseminata di ordigni inesplosi. Toccherà ai genieri militari ripristinare le reti idrica, elettrica, telefonica e stradale, mentre verranno montati ospedali da campo per fornire assistenza sanitaria di base. In parallelo si dovrà mantenere la sicurezza interna, impedendo il riarmo delle milizie e prevenendo nuove incursioni israeliane.
Le incognite della missione
L’articolo 6 dell’accordo prevede che ogni Paese del contingente sia accettato da entrambe le parti, Israele e Hamas. È una condizione che complica la composizione della forza. Oltre ai quattro Paesi iniziali, si valutano ingressi di Marocco, Giordania, Azerbaijan, Indonesia e Bangladesh. Tuttavia solo l’Egitto dispone di reparti esperti e confinanti, mentre la Turchia rischia il veto del governo Netanyahu, che accetterebbe al massimo personale medico e logistico. Anche la presenza di Francia e Spagna potrebbe non essere gradita, mentre si studiano possibili contributi da Argentina e Filippine.
Resta da chiarire la catena di comando: chi prenderà le decisioni operative e in quali casi sarà autorizzato l’uso delle armi. Senza regole d’ingaggio precise, il rischio è ripetere gli errori delle vecchie missioni Onu, dove i contingenti restavano impotenti di fronte alla violenza. Gli esempi di Mogadiscio 1993 o della Unifil in Libano restano moniti attuali: missioni con limiti troppo rigidi e nessun potere reale d’intervento.
Il ruolo italiano nella sicurezza palestinese
Tra i compiti più sensibili c’è la creazione di una nuova autorità palestinese provvisoria per la gestione civile e militare della Striscia. Per la formazione dei futuri apparati di sicurezza, si guarda all’esperienza dei carabinieri italiani, chiamati a guidare un pool di istruttori europei e arabi per addestrare da zero un corpo di gendarmeria palestinese. Saranno questi uomini a dover difendere gli abitanti da qualunque minaccia, interna o esterna, in un territorio che dovrà riscoprire l’idea stessa di Stato.
Costruire una forza mista eterogenea, efficiente e legittimata da tutti gli attori, sarà una prova di equilibrio e di disciplina. La missione, oltre alla pace, dovrà dimostrare che il Medio Oriente può essere stabilizzato non solo con le armi, ma con una presenza internazionale coesa, forte e credibile, capace di restituire ai palestinesi una prospettiva e agli israeliani la sicurezza.