
Il paragone può apparire azzardato, ma nel linguaggio politico e religioso del Medio Oriente nulla è casuale. Quando il presidente della Knesset, Amir Ohana, accoglie Donald Trump e lo paragona a Ciro il Grande, non si tratta soltanto di un elogio: è un messaggio teologico, geopolitico e simbolico insieme. Ciro, re di Persia nel VI secolo a.C., è ricordato nella Bibbia come lo “strumento di Dio” che restituì agli ebrei la libertà dopo la cattività babilonese, permettendo loro di ricostruire il Tempio di Gerusalemme. Era un sovrano pagano, ma rispettato dai profeti di Israele per aver incarnato la giustizia e la protezione del popolo eletto. Nel linguaggio della politica israeliana, accostare qualcuno a Ciro significa riconoscerlo come “salvatore dei tempi moderni”, un leader straniero ma provvidenziale per la causa di Israele.
Il simbolismo del paragone
Quando Donald Trump riconobbe Gerusalemme come capitale d’Israele e spostò lì l’ambasciata americana, i rabbini e i leader religiosi più vicini alla destra israeliana iniziarono a chiamarlo “Ciro moderno”. Quel gesto, compiuto nel 2018, fu percepito come un atto biblico più che diplomatico: come il ritorno della storia sacra dentro la cronaca del presente. Nelle sinagoghe evangeliche americane, nei movimenti sionisti religiosi e nelle chiese cristiano-sioniste, la figura di Ciro veniva evocata come profezia compiuta: un re non ebreo che, senza saperlo, compie la volontà divina. Trump non ha mai nascosto di considerare quella decisione una delle più importanti del suo mandato. E nel linguaggio della destra israeliana, soprattutto in figure come Ohana, quel gesto rappresenta un punto di non ritorno nella relazione tra Gerusalemme e Washington.
Ciro, la Bibbia e la realpolitik
Il parallelo con Ciro il Grande ha anche una valenza politica: Ciro, nel racconto biblico, non libera il popolo ebraico per pietà, ma per calcolo imperiale. Concede autonomia e riconoscimento religioso ai popoli soggetti per stabilizzare il suo regno. È un esempio di realismo antico, una pace fondata non sulla resa ma sulla forza ordinatrice del potere. Ecco perché, quando Ohana dice che Trump “ha dimostrato che la vera pace si raggiunge attraverso la forza”, riecheggia quella visione del mondo: l’idea che la pace non nasca dal compromesso, ma dall’imposizione dell’ordine. È una filosofia che si ritrova nel Trumpismo internazionale e nella nuova dottrina israeliana post-ottobre 2023, dove il linguaggio della deterrenza è tornato a dominare la politica.
La nuova narrazione del salvatore
Nell’attuale fase del conflitto mediorientale, con l’accordo di Sharm el-Sheikh e il ritorno di Trump sulla scena globale, Israele costruisce un racconto simbolico che va oltre la diplomazia: Trump come garante dell’esistenza, come colui che “ha salvato vite che sarebbero andate perdute”. È un registro che unisce mito religioso e riconoscimento politico, in cui ogni gesto di potenza diventa un atto di redenzione. Dietro l’immagine del nuovo Ciro c’è l’idea di un Occidente biblico, che si riafferma attraverso la forza. È la versione israeliana della retorica trumpiana: la convinzione che la pace non sia figlia del dialogo, ma della vittoria. E nel Medio Oriente delle profezie, le parole contano quanto i missili.