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Gaza, l’uomo che intonacava il muro mentre passava la Storia

Pubblicato: 13/10/2025 08:40

C’erano tre uomini, forse quattro. E intonacavano. Nel momento esatto in cui la folla si accalcava per vedere la liberazione degli ostaggi, mentre le telecamere internazionali riprendevano la scena da ogni angolazione, loro passavano la cazzuola su un muro. Un muro giallastro, rovinato, con crepe che sembravano vene, un residuo di case distrutte e ricostruite mille volte. Lavoravano con calma, con quella lentezza sacra di chi conosce la materia e il tempo, e lo rispetta.

Il cemento era denso, mescolato con sabbia e acqua in un secchio di latta. Qualcuno teneva ferma la scala, un altro riempiva la cazzuola, un terzo controllava la linea del bordo. Tre muratori qualunque di Gaza, zona Khan Yunis, tre uomini che non hanno mai lasciato la città e che, forse, avevano lavorato su quel muro anche mesi fa, prima dei bombardamenti. Tornarono lì al mattino presto, quando ancora il sole scaldava piano e le prime camionette si disponevano lungo la strada. Qualcuno, la sera prima, dev’essergli passato accanto e aver detto: “Domani verranno le telecamere di tutto il mondo, sistemate almeno quel muro, non possiamo farci vedere così”.

Forse non era un ordine, ma un appello al decoro, un istinto di dignità. Perché anche la miseria vuole una forma, anche la tragedia chiede un bordo pulito. Così, mentre le famiglie piangevano e le autorità si preparavano al rilascio, loro intonacavano. Senza fretta, senza alzare lo sguardo, senza sapere che alle loro spalle si muoveva la storia.

Il pudore del mondo

C’è un pudore nell’atto di riparare. Nabil, con la mano sinistra rovinata da vecchie ferite, lisciava il muro come si liscia la fronte di un figlio malato. Samir si piegava per impastare di nuovo la sabbia, e Hossam, quello più giovane, stava in bilico sulla scala, con un piede nel vuoto e l’altro saldo. Ogni tanto ridevano, sottovoce, come si ride nelle giornate di fatica condivisa. Forse parlavano di stipendi arretrati, di pane e carburante, di mogli che aspettano in fila all’ospedale Nasser.

Eppure, nel mezzo del caos, il loro lavoro diventava una forma di preghiera. Aggiustavano dove tutti distruggevano. Raddrizzavano mentre il mondo piegava. Non per convinzione politica, ma per obbedienza alla forma, a quel bisogno segreto che l’uomo ha di lasciare qualcosa di intero. Quel muro, sullo sfondo del rilascio degli ostaggi, diventava il confine tra la vita e il disordine.

C’è un’etica antica in tutto questo. Lo sapevano anche i greci, che chiamavano kosmos non solo l’universo, ma anche “ordine” e “bellezza”. Rendere il mondo più ordinato di come lo si è trovato: ecco la sola forma di vittoria che resta quando tutto brucia.

L’utilità dell’inutile

Nel suo libro più bello, Albert Camus scrisse che “l’uomo è l’unico essere che rifiuta di essere ciò che è”. Ecco, in quell’immagine — tre muratori che intonacano mentre la storia sanguina — c’è tutto il rifiuto di arrendersi alla necessità, alla logica del dolore. È l’utilità dell’inutile, la stessa che aveva Andrea nel suo carcere o chi continua a dipingere muri nelle città distrutte.

L’arte, il lavoro, la cura: sono gesti inutili nel senso più alto del termine, perché non producono salvezza, ma preservano il senso. È inutile sistemare un muro in guerra, eppure è proprio questo che tiene viva l’idea di civiltà. Come guardare una foto, accendere una candela, pettinarsi prima dell’addio.

In fondo, non c’è differenza tra un muratore che intonaca e un poeta che scrive. Entrambi tentano di tenere insieme ciò che si frantuma. Lo fanno sapendo che la materia vincerà, che il muro si creperà di nuovo, che la pagina ingiallirà. Ma lo fanno lo stesso, perché non è la durata che conta, è la forma. È la fedeltà all’atto, non al risultato.

Il gesto che resta

Mentre le telecamere di tutto il mondo riprendevano il convoglio degli ostaggi, milioni di persone hanno visto — forse senza accorgersene — quei tre uomini dietro, che continuavano a lavorare. Nessuno li ha intervistati, nessuno ha chiesto il loro nome. Eppure, nella memoria visiva di quel giorno, resteranno come un contrappunto, un segno minore ma indelebile: l’immagine di chi, nel cuore della guerra, si ostina a fare ciò che è giusto anche quando non serve.

Forse, la sera, quando hanno finito, hanno guardato il muro da lontano, sporchi di polvere e di calce. Forse Hossam ha detto qualcosa come “domani sarà di nuovo nero”, e gli altri hanno sorriso, stanchi. Poi hanno bevuto un caffè amaro, in silenzio, e sono tornati alle loro case.

Lì, in quella mezz’ora di normalità impossibile, c’era tutto: la forza dell’inutile, la bellezza come resistenza, l’idea che anche il dolore meriti un perimetro pulito. Perché anche quando la Storia marcia e grida, da qualche parte nel mondo ci sarà sempre qualcuno che, con una cazzuola in mano, intonaca il muro del caos.

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Ultimo Aggiornamento: 13/10/2025 11:12

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