
Francesco Fortugno era il vice presidente del Consiglio regionale della Calabria e un medico stimato, eletto nel centrosinistra. Il 16 ottobre 2005 la sua vita venne tragicamente spezzata: mentre partecipava alle primarie dell’Unione presso un seggio di Locri, fu assassinato in un agguato mafioso. Un killer a volto coperto gli sparò cinque colpi di pistola all’interno del seggio elettorale, davanti a decine di testimoni attoniti, per poi dileguarsi nella confusione. L’omicidio di Fortugno fu immediatamente percepito come un attacco alle istituzioni democratiche, sconvolgendo l’opinione pubblica calabrese e nazionale.
L’assassinio e la reazione popolare
L’omicidio di Fortugno rappresentò uno shock per la Calabria. Da anni la ‘ndrangheta non colpiva così apertamente un esponente politico di primo piano. La brutalità dell’agguato, avvenuto in pieno giorno durante un evento democratico, suscitò sdegno e allarme. Nei giorni successivi al delitto, migliaia di cittadini – soprattutto giovani e studenti – scesero in piazza per protestare contro la mafia e onorare la memoria di Fortugno. A Locri si tenne una partecipatissima marcia silenziosa aperta dallo striscione “E adesso ammazzateci tutti”, slogan diventato il simbolo della rivolta civile contro la ‘ndrangheta. Da quel motto nacque anche un movimento antimafia giovanile, Ammazzateci Tutti, che segnò la volontà dei calabresi onesti di reagire al clima di omertà imposto dalle cosche.
Ai funerali di Fortugno, celebrati il 19 ottobre 2005, parteciparono oltre ottomila persone insieme a numerose autorità. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e altre alte cariche dello Stato giunsero a Locri per testimoniare la vicinanza delle istituzioni. In quella occasione venne ribadito l’impegno a far luce sul delitto e a ristabilire la legalità in una terra profondamente ferita dalla criminalità organizzata. L’enorme eco mediatica del caso Fortugno contribuì ad accendere i riflettori sulla pervasività della ‘ndrangheta nella vita pubblica calabrese.
Le indagini: movente politico e intrecci con la sanità
Le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria si concentrarono subito sull’ipotesi di un omicidio politico-mafioso, maturato in un contesto di interessi illeciti nel settore della sanità. Fortugno, primario dell’ospedale di Locri noto per la sua integrità, aveva segnalato irregolarità e clientelismi nella gestione sanitaria locale. Gli inquirenti sospettavano che la sua eliminazione fosse legata anche a queste denunce di malaffare, oltre che alle lotte di potere. In particolare emerse il nome di Domenico Crea, un politico locale rivale di Fortugno, rimasto escluso dal Consiglio regionale nel 2005 per pochi voti. Secondo gli investigatori, l’assassinio mirava a far subentrare proprio Crea al posto di Fortugno, garantendo ai clan un referente politico a loro gradito all’interno dell’istituzione.
Nel marzo 2006, a pochi mesi dal delitto, furono arrestati diversi affiliati accusati di aver partecipato all’agguato, tra cui Salvatore Ritorto, sospettato di essere l’esecutore materiale. Decisiva fu la scelta di collaborare di un giovane affiliato, Bruno Piccolo, che abbatté il muro di omertà indicando mandanti ed esecutori. Nel giugno 2006 furono tratti in arresto anche Alessandro Marcianò e suo figlio Giuseppe, caposala e infermiere all’ospedale di Locri, ritenuti i mandanti dell’omicidio. L’inchiesta fece luce su un grave intreccio di collusione tra ‘ndrangheta e politica: i Marcianò erano strettamente legati a Domenico Crea e appartenevano alla rete di potere della cosca Cordì, egemone nella Locride. Mimmo Crea non venne mai formalmente incriminato per l’omicidio Fortugno, ma il suo nome figurò nelle carte giudiziarie come beneficiario indiretto. Nel 2008 lo stesso Crea fu arrestato in un’altra operazione antimafia relativa ad appalti e tangenti nella sanità calabrese.

Omicidio di Francesco Fortugno: il processo e le condanne
Nel febbraio 2009, al termine del processo di primo grado, la Corte d’Assise di Reggio Calabria condannò all’ergastolo Alessandro Marcianò e il figlio Giuseppe (ritenuti i mandanti), Salvatore Ritorto (il sicario) e Domenico Audino (l’autista del commando). La sentenza sancì ufficialmente che l’eliminazione di Fortugno era un delitto di potere orchestrato dalla ‘ndrangheta. In Appello (2011) e in Cassazione (2012-2013) le condanne furono confermate, ponendo fine al percorso giudiziario. Domenico Crea restò invece fuori dal processo: negò ogni addebito e mantenne il seggio in Consiglio regionale fino a fine legislatura.
A vent’anni di distanza, l’omicidio Fortugno è ricordato come uno degli attacchi più eclatanti della ‘ndrangheta allo Stato. Quella ferita inferta alla democrazia calabrese scosse l’intero Paese, ma suscitò anche una reazione delle coscienze civili. La vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà, divenuta parlamentare, continuò a chiedere verità e giustizia, convinta che oltre agli esecutori materiali vi fossero eventuali mandanti occulti mai svelati. Oggi la figura di Franco Fortugno è considerata un simbolo di coraggio civile: il suo sacrificio ha contribuito a risvegliare la coscienza antimafia in Calabria, dimostrando che la società civile può e deve reagire di fronte alla violenza mafiosa.