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Attentato a Ranucci, pedinato per giorni: “Settimane di preparazione, prove con esplosioni e colpi in aria”

Pubblicato: 18/10/2025 10:52

Dietro la bomba esplosa sotto casa del conduttore di Report ci sarebbe un piano studiato nel dettaglio. Gli inquirenti: “Un attentato contro il giornalismo d’inchiesta”. Sigfrido Ranucci era seguito da giorni, osservato nei suoi spostamenti con una precisione inquietante. Chi ha deciso di colpirlo non ha improvvisato nulla: ha studiato la sua routine, i percorsi, gli orari, scegliendo il momento più adatto per agire. L’attentato di giovedì sera a Campo Ascolano, la frazione di Pomezia dove vive con la famiglia, non è il gesto di un folle ma il risultato di una pianificazione meticolosa, durata settimane. È la convinzione dei carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati, che indagano insieme ai colleghi di Roma.

L’ordigno artigianale, collocato tra l’auto del giornalista e quella della figlia, sarebbe stato costruito e posizionato da mani esperte, dopo una serie di appostamenti e verifiche sul campo. Giovedì notte, alle 21.40, la scorta lo ha accompagnato fin davanti al cancello, e proprio in quell’istante, nella pineta di fronte, qualcuno lo osservava. Il piano sembrava pronto, ma è saltato per un imprevisto: il rientro della figlia Michela, che ha costretto il gruppo ad aspettare. L’esplosione, spaventosa e precisa, è arrivata alle 22.17.

Le “prove generali” e la miccia artigianale

La bomba — circa un chilo di polvere da sparo compressa — ha distrutto l’Opel Adam del figlio e la Ford Ka della figlia, scagliando detriti e schegge per metri. Il cancello dell’abitazione è stato divelto, i muri danneggiati, i cassonetti esplosi. “Avevano messo l’ordigno tra i vasi e le auto, proprio dove passo ogni sera”, ha raccontato il conduttore, ancora sconvolto di fronte al cratere. Non era tritolo, ma un congegno rudimentale maneggiato da mani esperte, acceso con una miccia che non concede più di venti secondi di fuga. Nella zona, i residenti avevano segnalato almeno tre esplosioni nelle settimane precedenti — il 27 settembre, il 4 e il 10 ottobre — e persino tre colpi d’arma da fuoco in aria nella notte di martedì, forse test per misurare i tempi di reazione delle forze dell’ordine. Tutto lascia pensare a una preparazione meticolosa, una strategia di terrore calibrata con attenzione.

Tutte le piste sul tavolo dell’Antimafia

Le indagini sono formalmente per danneggiamento aggravato dal metodo mafioso e violazione della legge sulle armi, ma di fatto si tratta di un attacco diretto a un giornalista d’inchiesta. Gli investigatori ipotizzano collegamenti con i servizi più recenti di Report o con inchieste ancora inedite. Tra le piste aperte dal sostituto procuratore dell’Antimafia Carlo Villani ci sono le infiltrazioni dei clan nell’economia, gli affari sui balneari, la maxi-inchiesta sulle sagre finanziate dalla politica e perfino il sottobosco ultrà legato alla criminalità organizzata e all’estrema destra, più volte raccontato dal programma. Nella mappa degli interessi sospetti figura anche la malavita albanese della zona di Pomezia, vicina all’ex capo ultrà Fabrizio Piscitelli, detto “Diabolik”, e il colossale affare del porto crocieristico di Fiumicino, valutato miliardi di euro. Il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, parla di “un fatto gravissimo” e aggiunge che “sarebbe inquietante se rappresentasse il segno di un clima di ostilità rinnovata verso i giornalisti”.

Non è la prima volta che Ranucci finisce nel mirino. Il pm Francesco Cascini indaga su una lunga serie di intimidazioni ricevute dal conduttore, tra cui i due proiettili trovati nel 2024 dopo una puntata sulla trattativa Stato-mafia e sull’eversione nera. Segnali che non avevano portato a un rafforzamento della scorta, rimasta al livello quattro, con vigilanza solo diurna e senza sorveglianza notturna. Ora, dopo l’attentato, il livello di protezione sarà innalzato: auto blindata, vigilanza h24 e indagini su ogni pista. Ma resta una certezza: chi ha scelto di colpire Ranucci non voleva solo distruggere due auto. Voleva colpire la libertà di chi racconta. E quella, in Italia, non si mette a tacere con una miccia.

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