
WASHINGTON – L’incontro bilaterale tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il magnate, svoltosi alla Casa Bianca, si è rivelato un evento dal grande apparato diplomatico ma privo di sostanza concreta. Quello che era stato annunciato come l’incontro della svolta si è risolto in un pareggio con una coreografia più adatta a un evento televisivo, dove le priorità dei due leader sono emerse in modo stridente.
Da una parte, c’era un uomo che lotta per la sopravvivenza del suo Paese, e dall’altra, un uomo concentrato sulla propria immagine e sul ruolo di mediatore equidistante. L’unico a trarre un vantaggio, se ce n’è stato uno, è stato il leader russo, Vladimir Putin, con il magnate che ha fatto un chiaro passo indietro rispetto alle aspettative ucraine. L’incontro, il primo per Zelensky non affiancato dai leader europei dopo l’agguato di fine febbraio, ha evidenziato una divergenza di obiettivi e un’assenza di impegni tangibili per Kiev.
Il nodo dei missili Tomahawk e la presunta equidistanza
Il punto cruciale dell’incontro verteva sulla possibile fornitura all’Ucraina dei missili a lungo raggio Tomahawk da parte degli Stati Uniti. Dopo aver inizialmente alimentato le speranze di Zelensky, e a sole ventiquattr’ore dalla telefonata con Putin, il magnate si è presentato come un mediatore neutrale, respingendo la richiesta. Pur lodando Zelensky definendolo «un leader forte, che ne ha passate molte, è un onore averlo» alla Casa Bianca, ha categoricamente sostenuto che fornire i Tomahawk rappresenterebbe una drammatica escalation.
Questa posizione è stata ribadita con tono secco: «Consegnare i missili Tomahawk a Kiev sarebbe un’escalation, ma ne parleremo», ha detto, aggiungendo l’auspicio di «arrivare alla fine della guerra senza doverglieli dare». Questa prudenza, o meglio, resistenza, nel fornire armamenti cruciali per la difesa ucraina è stata interpretata come una sensibilità verso le preoccupazioni di Mosca, se non un diretto cedimento alle presunte richieste di Putin durante il loro recente colloquio telefonico. L’atteggiamento del magnate è stato quello di un pacificatore reticente, che pur riconoscendo il valore dell’alleato, ha messo in primo piano il rischio di un allargamento del conflitto.
L’ombra di Putin e il presunto desiderio di pace
Il magnate ha più volte menzionato Putin, sostenendo che il leader russo «vuole mettere fine alla guerra». Tuttavia, non ha fornito alcuna indicazione su come Mosca intenderebbe raggiungere tale obiettivo, né ha collegato tale desiderio a condizioni accettabili per Kiev. Questa dichiarazione appare in forte contrasto con la realtà, richiamando alla memoria analoghe affermazioni fatte alla vigilia dello storico incontro ad Anchorage, in Alaska, prima che Mosca intensificasse i raid sull’Ucraina.
L’apparente neutralità del magnate nascondeva, secondo alcuni osservatori, una vicinanza a Putin, la persona che, nonostante la dichiarata equidistanza, rimane la più vicina alla sua visione e ai suoi interessi geopolitici. A riprova di ciò, il magnate non ha fatto menzione di nuove sanzioni contro Mosca e ha minimizzato i timori sulla tattica di guadagnare tempo da parte del leader russo. Quando gli è stato chiesto se fosse preoccupato che la “ennesima telefonata cordiale” di Putin fosse solo una mossa dilatoria, ha risposto con eccessiva sicurezza: «Sì, lo sono, ma per tutta la vita i migliori ci hanno provato e ne sono sempre uscito bene». La sensazione prevalente è che il magnate non volesse irritare in alcun modo il presidente russo.
La strategia Ucraina tra adulazione e proposte concrete
Da parte sua, il presidente Zelensky era determinato a tornare a Kiev con qualcosa di concreto, scottato dall’esito infruttuoso del loro precedente incontro allo Studio Ovale, finito in insulti. Per raggiungere il suo scopo, ha adottato la stessa strategia già utilizzata in occasione della sua visita estiva, quando era accompagnato dai leader europei: l’adulazione del magnate. Zelensky ha pubblicamente celebrato la leadership del suo omologo americano, affermando che «Trump ha la possibilità di mettere fine a questa guerra». Il focus della richiesta ucraina è rimasto duplice: ottenere un cessate il fuoco e, soprattutto, ricevere garanzie di sicurezza e armi.
Nel tentativo di bilanciare le richieste e offrire un vantaggio reciproco, Zelensky ha rivelato di aver incontrato le aziende militari americane e ha proposto uno scambio aperto: «Agli Stati Uniti possiamo offrire droni», ha dichiarato, offrendo la tecnologia e la produzione bellica ucraina in cambio di armamenti avanzati. Nonostante l’interesse espresso dal magnate, che ha risposto che gli USA «sono molto interessati», anche questa proposta di collaborazione industriale e tecnologica non ha trovato un riscontro immediato in un impegno concreto.
Il verdetto del magnate: uno stallo territoriale
La mancanza di risultati concreti è stata evidente anche sulla questione di un potenziale vertice di pace. Il magnate ha gettato acqua tiepida sull’idea di un vertice a tre (lui, Zelensky e Putin), precisando che si tratterà di un doppio incontro separato, pur mantenendosi «in contatto con Zelensky». La difficoltà di mettere i due leader l’uno di fronte all’altro, dato che «questi due leader non si piacciono, io sono stato presente a incontri di leader che non si apprezzavano, non si amavano, ma questa è una situazione diversa», ha portato il magnate a definire un piano post-vertice attraverso la piattaforma Truth.
Qui, ha esposto chiaramente la sua visione per la risoluzione del conflitto: «Ho detto a Zelensky e a Putin di smettere di uccidere e di fare un accordo. I confini territoriali sono stati definiti dalla guerra, dovrebbero fermarsi dove sono». La proposta è un netto invito allo stallo e al riconoscimento dei fatti compiuti, suggerendo di «Lasciamo che entrambi rivendichino la vittoria, lasciamo che sia la storia a decidere» chi ha vinto. In sintesi, il magnate ha cercato di imporsi come un arbitro salomonico, la cui soluzione è semplicemente quella di congelare il conflitto e accettare lo status quo imposto dalle linee del fronte attuali, una posizione che di fatto legittima le conquiste territoriali ottenute con la forza.