
Per Bernard-Henri Lévy, la nuova sinistra europea è diventata un rifugio per vecchi demoni: antisemitismo, risentimento e superficialità morale. Il filosofo francese parla di “una sinistra che brandisce la bandiera palestinese e persino quella di Hamas, convinta di combattere per la libertà mentre giustifica il terrorismo”. Nelle sue parole c’è il peso di un giudizio definitivo: “Tutti i tratti che la mia generazione ha denunciato nell’estrema destra – l’odio etnico, la semplificazione del mondo, la violenza travestita da idealismo – li ritrovo oggi nell’estrema sinistra. È una cosa terribile, e pericolosa”.
Le sue riflessioni emergono in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, dove Lévy, 76 anni, affronta la crisi morale dell’Occidente e lancia un atto d’accusa contro la deriva ideologica che attraversa la cultura progressista europea. Il suo nuovo libro, Insonnia (edito da La Nave di Teseo), diventa il pretesto per una diagnosi politica: il rifiuto dell’Occidente, spiega, ha portato parte della sinistra a simpatizzare per i suoi nemici. “Il melenchonismo – dice – è il segno di una malattia morale. Quell’estrema sinistra è ancora più superficiale e più ingiusta di quella degli anni Settanta”.

Israele, Hamas e la malattia morale della sinistra
Secondo Lévy, la deriva filo Hamas non è una semplice posizione politica, ma “una deformazione del giudizio morale”. L’antisemitismo, sostiene, “è tornato a farsi accettare, travestito da solidarietà con la causa palestinese”. E aggiunge che il linguaggio dei nuovi movimenti radicali “riproduce la logica binaria dell’estrema destra, solo invertendo i ruoli: ora il male è l’Occidente, e il bene è chi lo combatte”. È questo ribaltamento, dice, a rendere la sinistra radicale “più pericolosa di quanto sia mai stata”.
La critica si estende al modo in cui l’Europa ha affrontato il conflitto israelo-palestinese. Lévy accusa il presidente Emmanuel Macron di essersi piegato a un’idea di equilibrio che nasconde debolezza: “È stato perfetto sull’Ucraina, sconfortante su Israele. Riconoscere oggi lo Stato di Palestina è un errore: significherebbe creare uno Stato di Hamas”. Paradossalmente, riconosce una coerenza maggiore in Donald Trump, che ha subordinato la tregua al rilascio degli ostaggi. “È bizzarro – ammette – ma giusto: prima si sconfigge Hamas, poi si parla di Stato palestinese”.
Il punto centrale della sua analisi è che l’Europa, accecata da una retorica pacifista e da un senso di colpa post-coloniale, ha smesso di distinguere tra vittime e carnefici. “Ci si indigna selettivamente – spiega – solo quando è in gioco l’Occidente. È la nuova forma dell’odio di sé”.

L’Occidente stanco e la necessità del coraggio
Nel ragionamento di Lévy il declino dell’Occidente è prima di tutto culturale. “La politica sta scomparendo – avverte –. Non è più confronto tra visioni del mondo ma una lite per le poltrone”. È una stanchezza democratica che si estende dalla Francia all’intera Europa. Difende Macron dall’ondata populista e invita a ritrovare il senso del tempo politico: “La democrazia non è la legge dei sondaggi. Anche Mitterrand era impopolare due anni prima della rielezione, eppure vinse. La politica è il coraggio della pazienza”.
Nella sua visione, il vero pericolo non è la violenza dei fanatici, ma la resa morale delle democrazie. “Il diritto può sbagliare, ma va corretto. La libertà non è mai garantita. L’errore più grande è credere che basti difendersi: bisogna scegliere da che parte stare”. È lo stesso spirito che lo ha portato sui fronti di guerra, dal Sudan all’Ucraina, e che lo spinge oggi a denunciare la neutralità come forma di complicità.
Lévy chiude il suo pensiero con un’immagine che ritorna spesso nei suoi scritti: Antigone che sfida Creonte per dare sepoltura al fratello. “Restituire i corpi degli ostaggi israeliani – dice – non è solo un dovere politico, ma un principio di civiltà. È ciò che ci distingue dalla barbarie. Ho fatto tanti reportage di guerra, ma amo la pace. La guerra senza amarla, diceva Malraux, e la pace per tutti”.