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Caso Garlasco, lo scontrino che divide: dubbi, accuse e nuovi scenari sull’alibi di Sempio

Pubblicato: 19/10/2025 18:03

Lo scontrino del parcheggio di Vigevano, che da anni rappresenta la colonna portante dell’alibi di Andrea Sempio, torna a essere il centro della contesa giudiziaria sul caso Garlasco. A rimetterlo in discussione, questa volta, è Fabrizio Gallo, legale di Massimo Lovati, ex avvocato del sospettato, che ai microfoni di Open ha affermato con nettezza: “Se continua a usare quello scontrino, va contro un muro: lo scontrino è falso”. Parole pesanti, che riportano indietro il dibattito su uno dei punti più controversi di tutta l’inchiesta.

Secondo Gallo, l’alibi su cui Sempio ha fondato la propria difesa presenta troppe zone d’ombra. “Secondo Lovati, se una persona è innocente non ha bisogno di correre per trovare un alibi. Per lui, lo scontrino rappresenta solo un indizio: se non si trova un riscontro esterno, come una telecamera o un testimone, resta carta straccia”. È una posizione che apre un nuovo fronte, non solo mediatico ma anche tecnico, sulla credibilità degli elementi difensivi prodotti negli anni per scagionare Sempio dal sospetto di coinvolgimento nell’omicidio di Chiara Poggi.

Il nodo dell’alibi e il peso dello scontrino

Lo scontrino del parcheggio è da tempo uno dei simboli del dibattito attorno al caso. Datato 13 agosto 2007, sarebbe la prova che Sempio si trovava a Vigevano nell’orario in cui Chiara veniva uccisa. Ma la mancanza di riscontri esterni — come riprese video, testimonianze dirette o documentazione bancaria collegata — ha reso il documento oggetto di costante contestazione.

Per la difesa, lo scontrino è la conferma dell’innocenza di un uomo finito per anni nel cono d’ombra di un’inchiesta senza fine. Per i detrattori, invece, rappresenta un artificio, un tassello inserito a posteriori per costruire un quadro di estraneità. La nuova presa di posizione di Gallo riaccende la domanda che da sempre aleggia sul caso: quanto è solido l’alibi di Sempio?

L’ombra lunga del sospetto

L’intervento di Gallo, che conosce bene i meccanismi interni alla prima fase della difesa, sembra aprire uno scenario delicato anche sul piano etico. Mettere in discussione un alibi già vagliato dagli inquirenti significa riportare in superficie questioni che la giustizia aveva archiviato, ma che l’opinione pubblica non ha mai dimenticato.

Il riferimento di Lovati al “bisogno di correre per trovare un alibi” rimanda a una considerazione più ampia: l’alibi cercato e non spontaneo come possibile segnale di manipolazione. È un concetto che la giurisprudenza conosce bene — il valore probatorio di un alibi “costruito” è minimo — ma che nel caso Garlasco assume un peso ulteriore, data la complessità e la durata della vicenda.

Il valore giuridico di un alibi e la differenza tra indizio e prova

Nel linguaggio giuridico, un alibi è una dichiarazione difensiva volta a dimostrare che l’imputato si trovava altrove nel momento in cui è stato commesso un reato. Perché un alibi sia considerato attendibile, tuttavia, non basta la semplice esibizione di un documento: occorre che quell’elemento sia verificabile attraverso riscontri esterni. È il principio che Fabrizio Gallo ha voluto evocare con la frase “se non si trova un riscontro esterno, è carta straccia”.

In altre parole, uno scontrino, un biglietto o un pagamento elettronico possono rappresentare indizi, ma per diventare prove devono essere confermati da altri elementi indipendenti — come una telecamera, un testimone o una traccia digitale. L’assenza di questi riscontri riduce drasticamente la forza probatoria del documento, relegandolo a semplice argomento difensivo.

Nel caso Garlasco, il problema giuridico è esattamente questo: lo scontrino di Vigevano può essere considerato un indizio, ma non una prova. E, come ha spiegato Gallo, se un indizio viene utilizzato per costruire un intero impianto di difesa, senza essere sorretto da ulteriori elementi oggettivi, rischia di diventare un boomerang.

La giurisprudenza italiana è chiara su questo punto: gli alibi “artificiosi” o non verificabili non solo perdono valore, ma possono persino essere interpretati come indizi di colpevolezza, nella misura in cui rivelano un tentativo di costruzione o manipolazione. Tuttavia, è altrettanto vero che la prova dell’innocenza non può essere sostituita da un sospetto: serve una verifica formale, non un giudizio morale.

Un caso che non smette di cambiare

È in questo spazio grigio — tra la presunzione di innocenza e la necessità di coerenza probatoria — che il caso Garlasco continua a muoversi, oscillando tra verità processuale e percezione pubblica. Ogni documento riemerso, ogni dichiarazione, come quella di oggi, diventa così un nuovo tassello in una storia che sembra non volere mai chiudersi del tutto.

L’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto nella casa di famiglia a Garlasco, resta uno dei misteri più studiati della cronaca giudiziaria italiana. Dopo la condanna definitiva di Alberto Stasi, la pista Sempio — rilanciata da successive revisioni e indagini difensive — non ha mai smesso di alimentare discussioni. Ora, con le dichiarazioni dell’ex difensore e del suo legale, il dibattito potrebbe spostarsi ancora, aprendo spiragli a nuove verifiche documentali.

Il caso Garlasco, più di altri, continua a rappresentare un paradigma della giustizia mediatica italiana: una vicenda in cui la verità giudiziaria e quella pubblica viaggiano su binari paralleli, spesso senza incontrarsi mai. E in cui, paradossalmente, anche un semplice scontrino può trasformarsi in simbolo di un processo infinito, tra dubbi, ricorsi e memorie che non vogliono restare sepolte.

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