
Doveva essere un brindisi alla storia e all’identità irlandese, ma si è trasformata in una ferita culturale. La serie House of Guinness, creata da Steven Knight per Netflix, prometteva di raccontare la nascita dell’impero della birra più famosa del mondo con la forza epica di una saga familiare. Ambientata nella Dublino ottocentesca, segue le lotte di potere tra gli eredi di Sir Benjamin Lee Guinness, le rivalità intestine, i rapporti con i Fenians e le tensioni di un Paese in bilico tra povertà e rinascita.
A Londra e a Los Angeles l’hanno accolta come un gioiello: la definiscono “una Succession in salsa dublinese”, “una corsa irresistibile”, “un affresco monumentale di ambizione e ricchezza”. Il Guardian scrive che “i feromoni positivamente sfrigolano sullo schermo”, mentre Variety la descrive come “una cavalcata visiva affascinante e senza pretese di rigore storico”. Paste Magazine parla di “una miscela riuscita di conflitto familiare e intrigo politico con il marchio Guinness a fare da simbolo di potere”.
Nella critica anglosassone, il bicchiere è mezzo pieno: la serie è elegante, spettacolare, ricca di ritmo. I costumi e le scenografie ricostruiscono un’Irlanda vittoriana che sembra uscita da un dipinto di Turner. Il pub Guinness diventa il cuore pulsante di una città che si espande, la fabbrica è una cattedrale industriale e la schiuma delle birre un simbolo di ascesa sociale. Tutto scorre liscio come una pinta appena spillata.
L’Irlanda non ci sta
Ma dall’altra parte del mare, in Irlanda, il bicchiere si svuota di entusiasmo. Il The Irish Times parla di “un racconto rudimentario dell’esperienza coloniale”, accusando la serie di ignorare le fratture tra l’aristocrazia anglo-irlandese e la popolazione cattolica. L’articolo scrive: “Chi non capisce dove stavano gli Anglo-Irlandesi nella nostra storia, non può pretendere di raccontarla”. L’Independent irlandese è ancora più diretto: “Una ricostruzione approssimativa, piena di cliché e anacronismi, che riduce il nostro passato a un palcoscenico per drammi familiari in costume”.
Le critiche non riguardano solo la storia, ma l’anima stessa della serie. Molti spettatori irlandesi si sono sentiti derubati del proprio accento, della propria lingua, della propria memoria. La maggior parte delle scene è stata girata in Inghilterra e Galles, e questo, per molti, ha reso House of Guinness un racconto “da fuori”, uno sguardo coloniale mascherato da omaggio. Perfino la pronuncia degli attori ha scatenato una polemica nazionale. Il Guardian, nella sezione irlandese, ha riassunto la rabbia del pubblico in una frase: “Quando sbagli l’accento irlandese, non stai solo sbagliando un suono: stai toccando una ferita”.
Un bicchiere pieno d’orgoglio
Non è solo questione di parole. La Guinness non è una birra qualunque: è parte del DNA irlandese, un simbolo identitario paragonabile al verde del trifoglio o al passo di una cornamusa. Per questo, vedere quella storia trasformata in una produzione britannica travestita da irlandese ha irritato molti. “È come se ci avessero servito una Guinness calda e annacquata”, scrive un commentatore del Spectator. Lo stesso articolo parla di “steampunk Mr Tayto”, paragonando ironicamente la serie a una versione teatrale della mascotte di un pacchetto di patatine.
Eppure, anche tra i critici irlandesi più severi, qualcuno riconosce un merito alla produzione: l’aver attirato l’attenzione del mondo su un capitolo spesso dimenticato della storia nazionale. Alcune testate notano che per la prima volta una serie internazionale offre sottotitoli in gaelico irlandese, segno di un minimo rispetto linguistico, se non culturale. Ma è troppo poco per cambiare il giudizio complessivo.
Due visioni lontane
L’Irlanda e il mondo anglosassone vedono due serie diverse. Per il pubblico britannico e americano è un dramma raffinato, un prodotto di intrattenimento in linea con le grandi saghe familiari. Per il pubblico irlandese, invece, è un racconto coloniale travestito da epopea nazionale, dove l’anima della storia viene sacrificata alla spettacolarità.
Persino gli aggregatori di recensioni mostrano questa frattura: Rotten Tomatoes assegna un punteggio dell’89% grazie alle valutazioni estere, ma nei forum irlandesi proliferano commenti amari, come “non riconosco la mia Dublino” o “questa non è la nostra Guinness”.
Il confronto dice più della serie stessa. In Irlanda, la televisione non è solo intrattenimento: è una forma di riscatto storico. Quando un’opera tocca la propria identità, ogni dettaglio conta, dal modo in cui un attore pronuncia una parola al suono di una canzone pop usata in una scena di rivolta. “La nostra storia è stata raccontata troppe volte da chi non la capiva”, scrive un critico del Sunday Independent, “e Netflix non fa eccezione”.
Un brindisi amaro
House of Guinness non è un fallimento artistico: è un paradosso culturale. Funziona quando la si guarda come fiction internazionale, ma si incrina quando la si ascolta con orecchio irlandese. È una serie sontuosa, ben costruita, ma incapace di cogliere la melanconia dell’Irlanda vera, quella dei pub fumosi e delle ferite mai rimarginate.
Resta l’impressione di un grande spettacolo che ha dimenticato l’anima del luogo da cui è partito. Come se qualcuno avesse voluto raccontare l’Irlanda dall’interno di un bar londinese, con la pinta in mano e la convinzione di conoscerla. Il risultato è un bicchiere elegante, schiumoso, ma mezzo vuoto.