
La mappa del conflitto torna a disegnare l’ossessione dello zar. Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson: quattro nomi che Vladimir Putin continua a pronunciare come se fossero già suoi, ma che restano lontani. L’offensiva estiva è ormai al tramonto e la Russia non ha ottenuto nessuno dei risultati annunciati. Sul terreno la linea del fronte è ferma, come se la guerra fosse entrata in una sospensione di morte e logoramento. E mentre a Washington e a Kiev si parla di tregue, scambi e compromessi, il calcolo del tempo diventa un’arma quanto i droni.
Il fronte immobile
Secondo le stime dell’Economist, al ritmo degli ultimi trenta giorni la conquista totale delle quattro regioni richiederebbe fino a giugno 2030. Putin lo sa, ma continua a giocare con la pazienza e con la propaganda. Già ad aprile aveva respinto la proposta di congelare le ostilità lungo la linea del fronte, pretendendo il controllo di tutta la Crimea e degli oblast orientali, pur senza averli mai conquistati interamente. Da allora, né il vertice di Anchorage tra Trump e lo zar, né l’incontro tra il presidente americano e Zelensky hanno prodotto svolte reali. Il Donetsk resta il simbolo del nulla di fatto: città come Pokrovsk, Kramatorsk e Chasiv Yar resistono. E anche dove si parla russo, la russofonia non è sinonimo di russofilia.
Kiev parla di perdite enormi: tra 640.000 e 877.000 soldati russi fuori combattimento, di cui fino a mezzo milione di morti. Un bilancio che, anche ridotto, racconta una guerra di usura senza guadagni territoriali. Ogni chilometro conquistato costa mesi di battaglie e migliaia di vite. La realtà è che Mosca combatte per non arretrare, più che per avanzare.
Uomini e tecnologia
Sul campo, la tecnologia ha cambiato tutto, ma non le regole di base: chi attacca deve avere il triplo degli uomini di chi difende. E la Russia non li ha. I droni sorvegliano ogni metro di trincea, le armi di precisione colpiscono a distanza, e il terreno diventa una scacchiera mortale. Anche l’uso di piccoli reparti nella “kill zone” non basta se poi non ci sono forze sufficienti per tenere le posizioni. La fatica della guerra, la carenza di uomini e la stanchezza collettiva cominciano a pesare anche su Mosca, non solo su Kiev.
Putin ha provato a compensare con bonus di arruolamento e reclutamento forzato, ma nascondere le bare è impossibile perfino per un regime. Dopo il caos Wagner e la morte di Prigozhin, i mercenari sono diventati un rischio interno più che una risorsa. E anche lo zar, come una Caterina senza gloria, deve fare concessioni per tenere insieme il sistema.
Il boomerang della guerra
Dalle trincee alle fabbriche, la partita si sposta sull’economia. L’Ucraina, sotto le bombe, ha imparato a produrre droni e missili a basso costo, tentando di esportarli agli alleati europei. La Russia, più grande e industrialmente potente, è tuttavia lontana dall’immagine di forza che Putin ama raccontare. Trump, nel suo ultimo incontro con Zelensky, l’ha definita una “tigre di carta”, ma la verità è più sfumata: Mosca non è un gigante né una rovina, solo un Paese intrappolato nel proprio stallo.
Il nodo è la Cina, che finora ha sostenuto lo sforzo bellico del Cremlino ma non ha interesse a una guerra infinita. Se Pechino rallenta, l’intero equilibrio si incrina. E l’Europa, pur riluttante, sa che dovrà reagire. Perché se la guerra ibrida di Mosca dovesse allargarsi, il boomerang tornerebbe a colpire proprio il Cremlino. Con o senza i missili Tomahawk.