
La Corte d’Appello di Ancona ha condannato a tre anni di carcere un giovane di 25 anni accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza minorenne, all’epoca dei fatti 17enne. In primo grado, i giudici di Macerata avevano assolto l’imputato, sostenendo che il rapporto non fosse configurabile come violenza, in quanto preceduto da “effusioni amorose”. Una sentenza che aveva suscitato sconcerto e polemiche, e che ora è stata smentita dai giudici di secondo grado.
La richiesta di condanna era stata avanzata dal procuratore generale, che in aula aveva sollecitato una pena di 4 anni e 1 mese, oppure, in subordine, la derubricazione a un fatto di minore gravità per via dell’età dei coinvolti. La Corte ha optato per questa seconda ipotesi, ma ha comunque riconosciuto la violenza, segnando un passaggio cruciale: non conta solo se vi siano stati momenti intimi prima, ma se vi è stato consenso durante tutto l’atto. “Siamo tornati nel 2025 dopo una sentenza che ci precipitava nel Medioevo”, ha commentato l’avvocato della vittima, Fabio Maria Galiani.
I fatti risalgono all’estate del 2019, quando la ragazza, in Italia per una vacanza studio, uscì con un’amica e due ragazzi conosciuti da poco. In tarda serata, la giovane si appartò con uno dei due in un’auto, accettando di sedersi sul sedile posteriore e scambiando effusioni. L’assoluzione in primo grado si era fondata proprio su questo passaggio, ritenendo che la ragazza non avesse espresso una contrarietà chiara e inequivocabile, e che “fosse evidente a chiunque” che si trovassero lì per fare sesso.

Tra le motivazioni più controverse del tribunale, vi era anche il fatto che la ragazza “aveva già avuto rapporti sessuali”, e dunque doveva essere in grado di “prevedere gli sviluppi” della situazione. Una logica che ha indignato molte associazioni e attivisti, in quanto implica una colpevolizzazione implicita della vittima, soprattutto se sessualmente attiva. Le ecchimosi trovate sul corpo della ragazza sono state ritenute compatibili, per la difesa, con “suzione”, mentre per l’accusa erano il segno di una pressione esercitata per immobilizzarla.
Altra motivazione della sentenza di primo grado che ha fatto discutere è quella secondo cui la ragazza “non avrebbe opposto resistenza”: non avrebbe urlato, né tentato di aprire la portiera, né invocato aiuto. Per i giudici, questo avrebbe reso difficile interpretare un reale dissenso da parte della giovane. Una linea argomentativa che ignora l’effetto paralizzante della paura e dello shock, e che è stata duramente criticata da esperti e parlamentari.
Il pubblico ministero, nel suo ricorso, aveva ribadito che la ragazza aveva chiaramente detto di non voler continuare, aveva reagito con un pugno e non era riuscita a muoversi. Le sue dichiarazioni erano state coerenti e confermate da amiche e insegnanti che avevano avuto contatto con lei subito dopo l’accaduto. Elementi che, secondo la Procura, avrebbero dovuto bastare già in primo grado a riconoscere il reato.
La sentenza d’appello ha riacceso il dibattito sulla cultura del consenso in Italia. “Ancora una volta, una donna viene messa sul banco degli imputati”, ha commentato Laura Boldrini, che da tempo chiede una legge sul consenso esplicito. Anche Irene Manzi, deputata marchigiana, ha sottolineato l’importanza di affrontare il tema con urgenza: “Nessuna ambiguità può sostituire un sì chiaro. Serve una norma che protegga davvero le vittime”.
La pronuncia di Ancona arriva dopo una serie di sentenze discutibili in ambito di violenza di genere, che in più occasioni hanno fatto discutere per linguaggio, pregiudizi e conclusioni discutibili: dai casi in cui si è assolto l’aggressore perché la vittima indossava i jeans, a quelli in cui si è negato il reato per la brevità dell’atto. Questa volta, almeno in appello, giustizia è stata fatta, anche se in forma attenuata.
Resta aperto il tema della formazione dei magistrati e del sistema giudiziario nel trattare reati di violenza sessuale. La sentenza di primo grado, con le sue motivazioni, ha mostrato quanto sia ancora diffusa una visione distorta del consenso e del ruolo delle donne in queste situazioni. Il rischio è quello di delegittimare le vittime, scoraggiandole dal denunciare. Per questo, il caso di Macerata non è solo una vicenda giudiziaria, ma anche un banco di prova per la civiltà giuridica e sociale del Paese.