
Dopo settimane di accuse rivolte alla destra per la gestione del caso-Almasri, si rovescia lo scenario politico attorno alla Corte Penale Internazionale. Mentre il governo Meloni veniva attaccato per non aver eseguito l’arresto del generale libico richiesto dalla Cpi, ora è proprio quest’ultima a puntare l’attenzione su figure centrali della sinistra italiana. Il risultato? Il dibattito pubblico si è fatto improvvisamente più silenzioso, e da quel fronte non arrivano più dichiarazioni roboanti.
Leggi anche: Migranti, Soumahoro cambia idea: “C’è il diritto di restare in Africa”
Nel mirino della Corte, infatti, ci sono 122 funzionari e leader europei, accusati a vario titolo di crimini contro l’umanità nell’ambito delle politiche migratorie sulla rotta del Mediterraneo centrale. Il rapporto-inchiesta, depositato all’Aia dai giuristi francesi Omer Shatz e Juan Branco, insieme all’Ong Front-Lex e al centro International Law in Action, chiama in causa anche tre ex presidenti del Consiglio italiani: Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte. A loro si affiancano diversi ministri dei passati governi, tra cui Angelino Alfano, Marco Minniti e l’attuale vicepremier Matteo Salvini.
Il caso-Almasri e il doppio standard della politica
Fino a pochi giorni fa, il caso del generale libico Almasri era stato utilizzato dalla sinistra per accusare il governo Meloni di non rispettare il diritto internazionale. In particolare, la mancata esecuzione del mandato d’arresto era stata definita un grave atto di omissione da parte dell’Italia. La Corte Penale Internazionale, in quel caso, aveva effettivamente riconosciuto una violazione da parte dello Stato italiano.

Ora, però, lo scenario si complica: il nuovo rapporto presentato alla Cpi ribalta completamente la narrazione, portando sotto esame le politiche migratorie portate avanti dal 2013 al 2019 da governi a guida centrosinistra e Movimento 5 Stelle. E nel dibattito pubblico si assiste a un improvviso silenzio da parte di chi, fino a ieri, invocava il rispetto rigoroso del diritto internazionale.
Memorandum Italia-Libia e il nodo dei diritti umani
Al centro del dossier ci sono gli accordi tra l’Italia e i governi del Nord Africa, in particolare il Memorandum d’intesa con la Libia firmato nel 2017 da Gentiloni e dall’allora premier libico Serraj. Quel documento, rinnovato da tutti i governi successivi, incluso l’attuale esecutivo Meloni, rappresenta il pilastro della strategia italiana per contenere i flussi migratori nel Mediterraneo.
Secondo gli autori del report, queste intese avrebbero dato copertura e sostegno alle milizie libiche e alla guardia costiera di Tripoli, permettendo di riportare i migranti in fuga nei centri di detenzione libici – luoghi da anni al centro di denunce internazionali per torture, stupri, riduzione in schiavitù e trattamenti disumani. L’Italia viene così descritta come “attore chiave” nella costruzione dei meccanismi operativi che avrebbero violato le norme internazionali sui diritti umani.
Particolarmente criticate nel documento sono le decisioni di abbandonare la missione Mare Nostrum – operazione umanitaria di salvataggio in mare – e di sostituirla con accordi politici e militari che hanno, secondo l’accusa, esternalizzato la gestione del fenomeno migratorio senza adeguati controlli sulla tutela della dignità umana.
Le accuse: crimini contro l’umanità ai danni dei migranti
Il linguaggio utilizzato nel report depositato alla Corte Penale Internazionale è netto e senza ambiguità. Si parla di responsabilità penale individuale per “commissione diffusa e sistematica di crimini contro l’umanità”. Tra i crimini elencati: omicidi, sparizioni forzate, torture, riduzione in schiavitù, stupri e prigionia.

Secondo i promotori dell’inchiesta, queste violazioni sarebbero state compiute contro civili vulnerabili, persone in fuga da un conflitto armato, che cercavano protezione in Europa. Le politiche italiane, dal 2013 in poi, avrebbero contribuito attivamente a creare e mantenere un sistema in grado di infliggere sofferenze sistematiche, ignorando consapevolmente le denunce internazionali e le prove documentate.
In particolare, il rapporto mette sotto accusa il ruolo dell’Italia nella promozione della zona Sar libica, ovvero la zona di ricerca e salvataggio che si estende su un’area molto ampia di acque internazionali, affidata alla gestione delle autorità di Tripoli, che secondo gli autori dell’inchiesta avrebbero agito senza interferenze, anche grazie al sostegno politico e logistico ricevuto da Roma.
Il governo Meloni non rinnega gli accordi
Nonostante le polemiche e le pesanti accuse mosse nel dossier, l’attuale esecutivo non ha preso le distanze dal Memorandum con la Libia. Al contrario, nei giorni scorsi è stata approvata alla Camera una mozione della maggioranza che conferma il pieno sostegno all’intesa, definendola “la base della strategia nazionale di contrasto ai trafficanti di immigrati e di prevenzione delle partenze dalla Libia”.
Una posizione che conferma la continuità tra governi di diverso colore politico, ma che oggi diventa motivo di imbarazzo bipartisan, alla luce del coinvolgimento di figure di spicco sia della maggioranza attuale che delle opposizioni. Il rischio, evidenziato da diverse organizzazioni umanitarie, è che la politica migratoria italiana – indipendentemente da chi governa – si stia muovendo in una direzione incompatibile con i diritti umani fondamentali.
Il silenzio della politica e il peso della coerenza
Se la denuncia della Corte Penale Internazionale sul caso Almasri aveva scatenato dichiarazioni indignate da parte di molti leader della sinistra, oggi colpisce il silenzio sulle indagini che toccano tre ex presidenti del Consiglio e altri ministri italiani. Nessuna nota ufficiale, nessuna presa di posizione pubblica. Eppure, le accuse sono gravi, e coinvolgono non solo scelte politiche, ma anche possibili responsabilità penali individuali.
In attesa che la Cpi decida se aprire un procedimento formale, la questione migratoria torna così al centro del dibattito con una forza inedita. Non più soltanto un tema di gestione dell’ordine pubblico o di consenso elettorale, ma una vicenda che solleva interrogativi profondi sulla tenuta morale e giuridica della politica italiana. E sulla coerenza di chi, a seconda dei casi, alza o abbassa il volume della propria indignazione.