
Quando Giorgia Meloni parla di una pace giusta e non frutto della sopraffazione, non si riferisce solo a Putin. Dietro le parole pronunciate in Senato si intravede un altro interlocutore, più vicino e più scomodo: Donald Trump. La premier italiana sa che la linea trumpiana sul conflitto ucraino — fatta di disimpegno e pragmatismo economico — potrebbe rovesciare in pochi mesi l’intero equilibrio costruito in questi anni. E dunque prepara il terreno, senza mai nominarlo, ma lasciando intendere di non fidarsi.
Quando dice che nessuna decisione sulla sicurezza europea può essere presa senza l’Europa, Meloni manda un messaggio chiaro a Washington. È la sua maniera di ricordare che la difesa dell’Ucraina non può diventare merce di scambio nei giochi di potere tra Stati Uniti e Russia. Trump, con la sua idea di una pace negoziata in 24 ore, rappresenta esattamente il contrario: la resa geopolitica dell’Occidente in nome dell’America First. Meloni non lo può dire apertamente, ma lo teme. E teme soprattutto che l’Europa, spaccata e disarmata, finisca per accettare una pace imposta dall’esterno, con Kiev costretta a cedere territori e Bruxelles ridotta a spettatrice.
L’alleata che non si fida
Meloni resta formalmente un’alleata di Trump: ne condivide la visione conservatrice, i toni identitari, la diffidenza verso la burocrazia di Bruxelles. Ma sul terreno della sicurezza internazionale la distanza è ormai strutturale. Trump parla di ritiro, lei di presenza; lui vuole ridurre la spesa militare europea, lei insiste sulla difesa comune; lui considera l’Europa un costo, lei la vuole come soggetto politico autonomo. È per questo che la premier, ogni volta che interviene su Ucraina e NATO, alterna parole di fedeltà atlantica a frasi che suonano come un avvertimento: “Contiamo di proseguire il lavoro con gli Stati Uniti, ma nessuna decisione può essere presa senza l’Europa”. In quella formula si nasconde la sua vera dottrina.
Meloni sa che l’era del protettorato americano sta finendo e che una parte della destra mondiale, quella trumpiana, non crede più nella funzione storica dell’Occidente come blocco unito. Per questo si muove con prudenza, cercando di tenere insieme due identità: quella atlantica e quella europea. Da un lato cerca di restare dentro la sfera americana, per non rompere l’asse con Washington; dall’altro prepara l’Italia a un futuro in cui dovrà contare più sulle proprie forze e su una difesa continentale. È un equilibrio sottile, fatto di frasi doppie, di messaggi indiretti e di diplomazia implicita. Ma è anche la cifra di una leader che, per la prima volta, capisce che l’America può non essere più il garante del nostro destino.
L’Europa che non vuole più chiedere permesso
Meloni non attacca Trump perché non può permetterselo, ma il suo discorso al Senato è un modo elegante per prenderne le distanze. Ogni volta che parla di garanzie di sicurezza robuste e credibili, in realtà pensa a un’Europa che non debba più chiedere permesso. E quando insiste sul fatto che “nessuna decisione può essere presa senza l’Europa”, in realtà dice a Trump che la stagione della subordinazione è finita. L’Italia resta amica degli Stati Uniti, ma non più disposta a subirne le oscillazioni. È un passaggio di fase, e Meloni lo sa: il tempo in cui l’Europa poteva contare sull’ombrello americano è finito. Il prossimo conflitto — politico o militare — lo combatteremo da soli.