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Quando i minatori si fermano, la Russia trema: la crepa che può logorare Putin

Pubblicato: 24/10/2025 16:00

Nel Kuzbass, cuore minerario della Siberia, il ronzio continuo dei compressori si interrompe sempre più spesso. Le miniere chiudono, i salari arrivano in ritardo, e il carbone – una volta simbolo di forza e stabilità – si trasforma in segno di debolezza. Gli operai non protestano ancora apertamente, ma nelle città del bacino si respira una tensione sorda. Gli ultimi dati sulla produzione nel Kuzbass parlano di un calo di oltre il 6 % nel primo semestre dell’anno, mentre le imprese denunciano margini in negativo e difficoltà crescenti a mantenere i livelli occupazionali. La crisi del carbone, aggravata dalle sanzioni internazionali, sta erodendo uno dei pilastri economici su cui il Cremlino ha costruito il proprio consenso. Le esportazioni verso la Cina e l’India si riducono, il costo dei trasporti ferroviari cresce, e l’intera Transiberiana soffre colli di bottiglia che bloccano le forniture di energia. In un Paese dove il salario regolare è sinonimo di ordine politico, ogni ritardo diventa una minaccia.

Le miniere come specchio del potere

Il Kuzbass non è solo un distretto industriale: è la culla del mito sovietico del lavoro. Qui nacque la leggenda dei “minatori eroi”, simbolo di sacrificio e produttività. Oggi quella memoria rischia di trasformarsi in rancore. I minatori, che negli anni Ottanta furono protagonisti dello sciopero nazionale del 1989 e della “guerra dei binari” del 1998, conservano un potere simbolico enorme: se si fermano loro, si ferma il Paese. In molte città del bacino – da Mezhdurechensk a Prokopyevsk – i lavoratori lamentano condizioni di sicurezza sempre più precarie e stipendi che non coprono più il costo della vita. Gli incidenti continuano: a Listvyazhnaya, nel 2021, morirono decine di persone, e il ricordo è ancora vivo. L’economia mineraria è fragile: le miniere più profonde costano troppo, quelle più superficiali sono ormai esaurite. La produzione cala, ma Mosca chiede di mantenere gli stessi livelli per non compromettere l’immagine di potenza energetica.

In questo quadro, la frattura non è solo economica ma culturale. Il patto implicito che per decenni ha legato il potere ai lavoratori – tu lavori, io ti pago – si sta disgregando. Gli arretrati salariali si accumulano, i sindacati vengono controllati e le proteste soffocate, ma il malcontento non scompare. Si sposta sottoterra, nei dormitori delle miniere e nei cantieri di superficie, dove ogni silenzio pesa come un colpo di piccone.

La faglia economica e il rischio politico

Secondo un’analisi del centro di ricerca sull’industria carbonifera, il 2024 si è chiuso con perdite superiori ai cento miliardi di rubli, e le previsioni per il 2025 restano negative. Le imprese sopravvivono grazie ai sussidi pubblici, ma i bilanci regionali sono in rosso. I governi locali, privi di autonomia finanziaria, chiedono aiuti a Mosca che arrivano con ritardi cronici. Gli oligarchi del settore preferiscono tagliare investimenti e delocalizzare verso l’Estremo Oriente, dove i costi sono minori e il controllo statale più debole. La logistica ferroviaria, già sovraccarica per le esigenze militari, non regge più: vagoni fermi, scorte bloccate, carbone che non raggiunge i porti del Pacifico. L’intero sistema, fondato sulla promessa di efficienza sovietica e ordine amministrativo, mostra crepe profonde.

Il Cremlino tenta di mantenere la calma distribuendo incentivi temporanei e promesse di modernizzazione, ma le parole non bastano. Gli incidenti sul lavoro, le denunce di sfruttamento e i ritardi nei pagamenti alimentano una sfiducia che nessuna propaganda riesce più a mascherare. Il rischio è che la rabbia, oggi ancora sotterranea, diventi collettiva. Se i minatori decidessero di bloccare i binari della Transiberiana, come fecero in passato, l’impatto economico e simbolico sarebbe devastante.

Il patto sociale che vacilla

L’identità della Russia industriale è costruita attorno ai minatori: uomini duri, disciplinati, abituati al buio e alla polvere. Per anni sono stati la prova vivente del “contratto sociale” su cui Vladimir Putin ha edificato la propria legittimità: lavoro in cambio di stabilità. Oggi quel contratto è in crisi. Le famiglie operaie faticano a pagare mutui e bollette, l’inflazione erode ogni risparmio, e le nuove generazioni lasciano la Siberia per cercare fortuna nelle città europee della Federazione. La promessa di benessere in cambio di obbedienza non regge più.

La sicurezza sul lavoro resta un tema esplosivo. Dopo ogni disastro, il potere centrale invia ispettori, promulga decreti e promette investimenti. Poi, tutto torna come prima. Le statistiche del Ministero del lavoro mostrano che nel 2024 oltre duemila incidenti gravi si sono verificati nel solo settore estrattivo. Le vittime si contano ogni mese, ma i processi finiscono nel nulla. In un Paese dove la memoria del sacrificio è un pilastro dell’identità collettiva, il rischio è che la sofferenza torni a farsi politica.

Per il Cremlino, il problema non è solo fermare la crisi, ma contenerne il significato. Se i minatori smettono di credere nella stabilità promessa da Mosca, la crepa diventa culturale. È il simbolo che si spezza: l’idea stessa che il potere sappia proteggere chi lavora. E quando il simbolo si incrina, anche l’autorità perde forza.

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