
“Vedere mia mamma piangere perché la scossa di stasera le ha ricordato la devastazione in Irpinia dell’80 mi ha spezzato il cuore.” È una frase scritta su X pochi minuti dopo la nuova scossa che ha attraversato l’Avellinese, ed è diventata il simbolo di ciò che molti stanno provando. Non è solo paura, è un ritorno di memoria. “Il divano si è letteralmente mosso, e io ho rivisto mio padre che ci tirava fuori di casa in pigiama” scrive un altro utente. Nelle case, nei bar, nelle cucine dove le stoviglie hanno vibrato per un istante, la memoria del terremoto dell’Irpinia del 1980 è tornata a imporsi con la forza delle cose non risolte.
Non serve nemmeno nominarlo, basta dire “come quella volta” e tutti capiscono. Perché quella volta fu l’inizio di tutto. Il boato, il buio, la polvere, il freddo improvviso. Chi ha più di cinquant’anni ricorda dove si trovava, chi era con lui, cosa fece dopo. “Ho sentito un colpo secco e mi è mancato il fiato”, racconta Maria, 62 anni, che allora era una bambina a Lioni. “Mia madre mi trascinò giù per le scale gridando che il mondo si stava spaccando in due.” Ora, dopo decenni, basta un tremore per far tornare quell’eco sotterranea che non ha mai smesso di vibrare.
La ferita che non si chiude mai
Il terremoto del 1980 è rimasto inciso come una frattura nella storia d’Italia. Non è un ricordo, è una cicatrice viva. Fece quasi tremila morti, decine di paesi cancellati, e lasciò dietro di sé un silenzio più pesante delle macerie. A Sant’Angelo dei Lombardi non restò in piedi quasi nulla. A Balvano, una chiesa crollò durante la messa e portò via decine di ragazzi. A Conza, a Laviano, le mani cercavano i corpi a lume di candela. Non era solo un sisma, era la resa dei conti tra la natura e la nostra illusione di stabilità. Il presidente Sandro Pertini, quando arrivò tra le rovine, disse che lì non c’era nessuno dello Stato. Era un’accusa, ma anche una promessa. Da quel dolore nacque una nuova parola: emergenza. E con essa la scoperta che la solidarietà può essere più forte della paura. Volontari da tutta Italia, vigili del fuoco, medici, giovani con le mani nude e la faccia nera di fumo. Quella notte non si spense mai del tutto, perché continuò negli anni della ricostruzione lenta e faticosa, nelle baracche di lamiera, nelle scuole provvisorie, nelle famiglie che impararono a contare i giorni in attesa di una casa.

La memoria che trema con la terra
Ora che la terra è tornata a muoversi, chi c’era allora sente lo stesso nodo alla gola. “Ho avuto paura, ma la paura più grande è quella dei ricordi”, scrive una donna di Avellino. E un uomo aggiunge: “Non ho pensato al terremoto di adesso, ma a mio padre che scavava tra le macerie nel paese di mia madre.” È come se le generazioni si fossero sovrapposte in un solo battito, un passaggio di testimone tra chi ha vissuto la tragedia e chi ne porta dentro il racconto. L’Irpinia di oggi non è quella di allora, ma il suo cuore è lo stesso: un cuore che trema e resiste. Le case sono cambiate, le strade anche, ma l’anima dei paesi resta segnata. Ogni nuova scossa diventa un promemoria: la sicurezza è un’illusione fragile, e la memoria è l’unico rifugio che non crolla. Nelle stazioni dei carabinieri e nelle scuole, nei municipi e nelle cucine, la conversazione è la stessa: “Hai sentito?” E poi, subito dopo: “Ti ricordi?”. Perché in Irpinia il tempo non è lineare: torna, si ripete, scuote la stessa paura che allora era polvere e preghiera.
L’Italia che si riscoprì comunità
Il terremoto del 1980 cambiò per sempre il modo in cui il Paese guardava a se stesso. In quei giorni nacque una forma nuova di appartenenza: il bisogno di aiutare, di condividere, di ricostruire. Si scoprì che dietro la tragedia poteva esistere una solidarietà nazionale che non conosceva confini. Ma emerse anche la lentezza della burocrazia, i ritardi, la rabbia per le promesse mancate. Quell’Italia ferita imparò a convivere con le sue contraddizioni, ma non dimenticò mai la lezione di quei giorni: che la vita può finire in un attimo, e che tutto ciò che vale davvero è ciò che resta dopo la paura. Ecco perché oggi, di fronte a un’altra scossa, anche piccola, il Sud intero ha avuto un sussulto dell’anima. Non solo per paura, ma per memoria. Perché ogni vibrazione, ogni bicchiere che si muove sul tavolo, ogni sguardo che corre verso il soffitto è un messaggio di continuità con chi c’era quella notte. L’Irpinia non è un luogo, è una condizione del cuore: un modo di sentire la terra, di portarne addosso la voce. E quella voce, ancora oggi, continua a farsi sentire.


