
Una tristezza profonda avvolge il mondo delle sette note. L’eco metallica e vibrante di una batteria si è affievolita per l’ultima volta, lasciando dietro di sé un silenzio che pesa come piombo. Non è solo la scomparsa di un musicista, ma la perdita di un artigiano del ritmo, di colui che ha saputo tessere trame sonore complesse e visionarie.
Chiunque abbia ascoltato i suoi colpi, la sua sensibilità quasi tattile nel plasmare il tempo, sa che un capitolo fondamentale della storia del jazz si è chiuso. Il lutto è sentito da colleghi, allievi e milioni di appassionati che in quelle mani sapienti trovavano una guida, un’ispirazione costante verso l’ignoto e il sublime della creazione sonora. Il ricordo della sua arte, fluida, potente e innovativa, rimane l’unica consolazione in questo momento di universale dolore per la fine di un’era.
La scomparsa di un gigante
È scomparso Jack DeJohnette, una figura monumentale nel panorama del jazz mondiale. Il batterista, pioniere della fusion e la cui carriera ha attraversato decenni di innovazione musicale, si è spento all’età di 83 anni. La notizia, diffusa da fonti autorevoli del settore musicale e ripresa da colleghi che lo hanno amato e stimato, lascia un vuoto incolmabile, segnando la fine di un’era per il jazz e la musica contemporanea in generale. DeJohnette non è stato solo un esecutore; è stato un trasformatore, un artista che ha ridefinito il ruolo del suo strumento e l’identità sonora di un intero genere.
Un gigante di Chicago e la rivoluzione sonora
Nato a Chicago il 9 agosto 1942, Jack DeJohnette portava con sé le ricche e disparate influenze musicali della sua città natale. Fin dalle prime esperienze, la sua musica è stata una fusione audace di generi apparentemente distanti: il groove viscerale e ritmico dell’R&B si è incontrato con le strutture complesse e le libertà formali dell’avant-garde jazz. Questo mix esplosivo non era un mero esercizio stilistico, ma il cuore pulsante della sua identità artistica. DeJohnette è emerso come uno dei principali artefici della rivoluzione sonora che ha dato vita alla fusion, un genere che avrebbe cambiato per sempre il volto del jazz. La sua capacità di passare da un ritmo incisivo e ballabile a complesse poliritmie astratte lo ha reso un musicista di rara versatilità.
L’incontro cruciale con Miles Davis
Il momento di svolta nella carriera di DeJohnette arrivò con la chiamata che ogni musicista jazz ambiva: l’invito a unirsi alla band di Miles Davis a New York. Sostituendo il leggendario Tony Williams, DeJohnette si trovò al centro di una delle formazioni più innovative della storia della musica. Il suo contributo fu fondamentale nell’incisione di ‘Bitches Brew’, l’album del 1970 che non è semplicemente un disco, ma un manifesto culturale. Questo lavoro seminale è universalmente riconosciuto per aver ridefinito i confini del jazz, aprendolo in modo irreversibile all’influenza del rock psichedelico e di nuove sonorità elettroniche. Per ben tre anni, DeJohnette fu il motore ritmico della band di Davis, agendo come una forza catalizzatrice nella trasformazione del linguaggio musicale del secolo. La sua batteria non si limitava ad accompagnare, ma dialogava attivamente con gli altri strumenti, suggerendo direzioni e plasmando il suono complessivo.
Collaborazioni di prestigio e progetti personali
Oltre alla sua esperienza con Miles Davis, la carriera di DeJohnette è costellata di collaborazioni con altri titani della musica. Ha lavorato con maestri del calibro di Chick Corea e John McLaughlin, figure chiave anch’esse nel movimento fusion e non solo. La sua influenza si è estesa attraverso le registrazioni come leader per etichette di culto, tra cui la pionieristica CTI e l’autorevole ECM. È stato con queste etichette che ha potuto esplorare ulteriormente la sua visione, dimostrando una profonda sensibilità compositiva oltre che ritmica. Tra i suoi lavori più intimi e personali spicca ‘Music For The Fifth World’, un progetto che riflette le sue radici ancestrali, in particolare le sue discendenze Crow e Seminole. Questo album è un viaggio musicale profondo, arricchito dal contributo di anziani nativi americani, che testimonia la sua volontà di utilizzare la musica come strumento narrativo e spirituale.
L’eredità del “vero stregone del ritmo”
Il mondo della musica lo ha celebrato con lodi altissime. Jazz Dispensary lo ha definito “un vero stregone del ritmo”, un appellativo che cattura perfettamente la sua abilità quasi magica di manipolare il tempo e la pulsazione. Colleghi di spicco, come Marvin “Smitty” Smith e Ulysses Owens Jr., hanno espresso il loro dolore, riconoscendolo come un mentore e un maestro la cui influenza ha plasmato intere generazioni di batteristi.
L’eredità di Jack DeJohnette è assolutamente immensa e va ben oltre la sua tecnica, che era innegabilmente fluida e innovativa. Egli ha elevato la batteria da mero strumento di percussione a una voce narrante completa, capace di evocare mondi, di esprimere la gamma completa delle emozioni umane e di proporre visioni musicali audaci. La sua musica, ricca di sfumature, potenza e intelligenza, continuerà a risuonare e ad ispirare, come solo le opere dei più grandi artisti sanno fare. La sua scomparsa è una perdita per il mondo, ma la sua musica rimane come un tesoro inestimabile per le generazioni presenti e future.


