
Se ne va Mimmo Jodice, uno dei più grandi protagonisti della fotografia italiana, scomparso a 91 anni nella sua amata Napoli, città alla quale rimase legato per tutta la vita. Nella sua lunga carriera, Jodice seppe trasformare la macchina fotografica in uno strumento di indagine, un mezzo per raccontare il reale senza mai accontentarsi di riprodurlo. Fu un fotografo militante prima, e un viaggiatore incantato poi, capace di coniugare l’impegno civile con la ricerca poetica.
Napoli fu la sua musa, il suo laboratorio, la sua materia viva. Nelle sue fotografie si intrecciano la povertà e il dolore, la bellezza e il mistero, la memoria e il sogno. Raccontò la città dal basso, tra i vicoli e le sue contraddizioni, mostrando con sguardo lucido e partecipe i volti della lotta, del colera, della fatica quotidiana. Ma anche la sua potenza estetica e spirituale, quella che resiste al degrado e si nutre del mare, “senza il quale non sarei sopravvissuto”, diceva.
L’eredità di un maestro e il legame con la città

Negli anni Settanta, Jodice fu protagonista della straordinaria stagione culturale napoletana. Alla galleria Amelio, nel cuore di piazza dei Martiri, incontrò e ritrasse artisti come Andy Warhol, Joseph Beuys, Sol LeWitt e Robert Rauschenberg. Le sue immagini dialogavano con le loro opere, in un cortocircuito creativo che fece della fotografia una forma d’arte autonoma.
Ma Jodice rimase sempre fedele alla sua idea originaria: la fotografia come linguaggio, non come mestiere. Contestò gli stereotipi dell’immagine patinata, rifiutò la “falsa trasparenza” del reale e cercò invece di scavare oltre la superficie, di rivelare ciò che resta invisibile. Negli anni della disillusione sociale, dopo il terremoto e la fine delle speranze collettive, abbandonò la figura umana e rivolse l’obiettivo verso le pietre antiche, i musei, la Napoli sotterranea.
In quelle immagini, apparentemente immobili, si nascondeva una nuova forma di umanità. Le statue, illuminate dal suo sguardo, sembravano respirare, come se l’artista ne risvegliasse la memoria dormiente. Era la sua “archeologia delle emozioni”, un viaggio nel tempo alla ricerca di ciò che resta, di ciò che continua a parlare anche quando il rumore del mondo tace.
Un’eredità di luce e silenzio
Mite e riservato, Jodice trascorse gli ultimi anni nella sua casa di Posillipo, circondato dalle opere dei grandi artisti con cui aveva condiviso il cammino. Non smise mai di lavorare nella sua camera oscura, “il mio regno”, diceva, “dove ogni cosa torna a respirare”. Per lui, la fotografia rappresentava e non documentava: era un modo per strappare al reale il velo dell’ipocrisia e restituirgli un senso.
Con la sua morte, si chiude una pagina importante dell’arte italiana, ma restano le sue immagini, sospese tra pace e inquietudine, storia e sogno. Come scrisse Pessoa, una delle sue frasi preferite: “Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?”. In quel perdersi c’era tutto il suo mondo, quello di un uomo che guardava per ritrovarsi, e che ha insegnato a generazioni di artisti a vedere davvero.


