
È una delle donne più conosciute e amate della televisione italiana, ma dietro il sorriso di Natasha Stefanenko si nasconde una storia che affonda le radici in un mondo lontano, quello dell’Unione Sovietica. Ex modella, attrice, showgirl e ormai italiana d’adozione, Stefanenko ha voluto raccontare la sua infanzia in una città “fantasma”, simbolo del periodo più chiuso e militarizzato della Guerra Fredda. “Sono nata e cresciuta a Sverdlovsk-45, vicino a Sverdlovsk, negli Urali, oggi Ekaterinburg. Era una città segreta, non segnata sulle carte geografiche, dove si costruiva un arsenale nucleare sovietico”, ha raccontato al Quotidiano Nazionale.
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In quella città invisibile, per entrare e uscire serviva un pass speciale. Tutto era sorvegliato, ogni spostamento controllato. “C’erano barriere di filo spinato, cani lupo ogni cento metri e allarmi pronti a scattare. Mio padre Boris era ingegnere nucleare, mia madre Svetlana insegnante. Era la normalità per noi: vivevamo dentro una bolla protetta e isolata dal resto del mondo”, ricorda.
La bambina con la cravatta rossa da pioniere
Il racconto di Natasha Stefanenko non è solo un tuffo nella memoria, ma anche una riflessione profonda sul valore di ciò che quella vita le ha insegnato. In un post pubblicato su Facebook, corredato da una foto del 1979 in cui appare bambina con la cravatta rossa da pioniere, la conduttrice ha spiegato il significato di quel simbolo per chi è cresciuto nell’URSS. “Rappresentava appartenenza, disciplina e ideali collettivi. Faceva parte della nostra uniforme scolastica, ma anche della nostra identità. Quell’epoca sembra lontana, ma ha plasmato il nostro modo di pensare e di vivere”.

Le sue parole hanno toccato molti. “Crescevamo in un mondo dove tutto era condiviso: sogni, difficoltà, speranze. Il pioniere non era solo uno scolaro, ma un piccolo ingranaggio di un progetto collettivo. Non avevamo molto, ma non ci sentivamo poveri. I giocattoli erano pochi, ma l’immaginazione infinita. Le vacanze si passavano nei campi estivi, dove si imparava la vita di gruppo e il senso della comunità.”
Libertà collettiva e valori da non dimenticare
Nel suo racconto, Natasha Stefanenko non nasconde i limiti di quel sistema, ma invita a guardare anche alla parte umana di quell’esperienza. “La libertà era diversa da quella di oggi. Non era individuale, ma collettiva. E se oggi vediamo gli errori e le rigidità del regime, molti di noi portano ancora nel cuore valori come solidarietà, rispetto e resilienza. Questo non è un atto politico, ma un ricordo personale. Il passato non si cambia, ma si può capire. Da lì si possono costruire ponti.”
Le sue parole non nascono da nostalgia ideologica, ma da un bisogno di memoria. Un modo per raccontare come l’infanzia vissuta in un contesto di rigore e disciplina abbia forgiato il suo carattere e la sua visione del mondo. “Ogni volta che guardo quella foto, ricordo da dove vengo e capisco meglio dove sto andando”, scrive la showgirl, che da anni vive in Italia con la sua famiglia.
Tra nostalgia e dibattito social
Il post della Stefanenko ha raccolto decine di commenti, quasi tutti di apprezzamento. Molti utenti hanno espresso un senso di nostalgia per l’educazione sovietica, riconoscendo in quelle parole un richiamo alla semplicità e alla condivisione. Qualcuno, invece, ha sottolineato come la caduta del Muro di Berlino e la fine del regime comunista abbiano spinto milioni di persone a cercare libertà e opportunità in quell’Occidente che fino a poco prima era considerato nemico.
Nonostante le diverse opinioni, il racconto di Natasha Stefanenko ha toccato corde profonde, risvegliando un dibattito tra chi ricorda con affetto alcuni aspetti della vita sotto il comunismo e chi, al contrario, sottolinea le restrizioni e le mancanze di libertà di quel sistema.
Una finestra sul passato per capire il presente
Attraverso le sue parole, Natasha Stefanenko ha aperto una finestra su un mondo scomparso, offrendo una testimonianza preziosa di un’epoca che ha segnato intere generazioni. La sua storia, lontana dal sensazionalismo e intrisa di sincerità, mostra come anche un’infanzia vissuta dietro il filo spinato possa lasciare un’eredità di forza e di consapevolezza.
Il suo messaggio finale è un invito alla memoria e alla comprensione, un modo per ricordare che ogni passato, anche il più complesso, può diventare una lezione di umanità. “Non voglio nostalgia politica, ma solo ricordare ciò che mi ha formata”, ha concluso. Ed è forse in questa frase che si trova la chiave del suo racconto: guardare indietro non per tornare, ma per capire meglio chi siamo oggi.


