
Figlio di Alessandro “Billy” Costacurta e di Martina Colombari, Achille Costacurta ha affidato al podcast “One More Time” il racconto dei suoi anni più duri. Una stagione segnata da crisi profonde, terapie, ricoveri e un dolore che ha investito l’intera famiglia, costretta a fare i conti con la fragilità della salute mentale.
Nel rievocare quel periodo, Achille non nasconde l’impatto sulle persone a lui più care. “Mia mamma ha pianto tanto”, dice, sottolineando quanto la sofferenza di Colombari sia stata evidente. Al tempo stesso, il padre ha provato a restare un punto fermo, lucido, affidabile, anche quando tutto sembrava franare.

Achille racconta il tentativo di suicidio
Achille ha raccontato diversi momenti bui. Sul suo tentativo di suicidio, il 21enne ricorda: “Ho iniziato a spacciare fumo. Arrivata la quarantena, tutti chiusi in casa, fumo non ce n’è. A me riusciva ad arrivare comunque tramite dei canali, avevo creato una rete e mi hanno arrestato a 15 anni e mezzo. Quindi faccio il mio primo compleanno dei 16 anni lì, centro penale comunità terapeutica. Non ce la facevo più, aspetto la notte quando c’è un solo operatore ed entro in ufficio, lo distraggo e prendo le chiavi dell’infermeria”.
“Lo chiudo dentro l’ufficio – prosegue il racconto -, lui con le sue chiavi riesce a uscire. Io però nel frattempo ero già in infermeria e prendo tutto il metadone che c’era, sette boccettine, mi chiudo in bagno e le bevo tutte, volevo suicidarmi. Arrivano i pompieri e sfondano la porta, poi l’ambulanza. Nessun medico ha saputo dirmi come io sia ancora vivo perché l’equivalente di sette boccettine di metadone sono sui 35, 42 grammi di eroina. La gente muore con un grammo”.

Un altro momento buio: il depot e la richiesta di eutanasia
Il momento più difficile è legato a un crollo visto con i propri occhi. “Quando mi avevano fatto il depot, io tutti i giorni chiedevo di andare a fare l’eutanasia perché non avevo più emozioni e volevo morire. E lì l’ho visto piangere“. Parole che restituiscono la gravità della crisi e la disperazione di chi non trova più appigli.
Il depot, farmaco antipsicotico a lunga durata d’azione somministrato per via intramuscolare, rilascia il principio attivo nel tempo. In quei giorni Achille racconta di essersi sentito svuotato, privo di slanci e incapace di provare emozioni, come se ogni colore fosse scomparso dalla scena.
Poi, il cambio di rotta. “Il giorno che esco dalla clinica mi viene a prendere papà. C’era un doppio arcobaleno. Sono scoppiato a piangere e gli ho detto: “Hai visto che ce l’abbiamo fatta? Ce lo sta dicendo pure il cielo””. Un’immagine potente che diventa simbolo di rinascita e di un percorso terapeutico finalmente in salita.
Nel racconto c’è spazio anche per la famiglia come presidio costante: la tenacia di Billy Costacurta, la cura di Colombari, l’aiuto dei professionisti. Una rete che, tra terapia, ascolto e pazienza, ha permesso di restare a galla e rimettere insieme i pezzi quando lo sconforto sembrava avere la meglio.
Oggi Achille sceglie la riservatezza, ma non rinuncia a raccontare la sua storia. La condivisione diventa strumento di consapevolezza: dire ad alta voce ciò che fa paura è un modo per sottrarre potere allo stigma e ricordare che chiedere aiuto è un atto di forza, non di debolezza.
Il messaggio che arriva è chiaro: la fragilità mentale esiste e può essere affrontata con percorsi di cura, sostegno familiare e professionisti competenti. Riconoscere i segnali, cercare supporto psicologico, non minimizzare: sono passaggi decisivi per invertire la rotta quando tutto sembra fermo.
Questa testimonianza, senza spettacolarizzazioni, restituisce peso alle parole e al dolore di chi vive certe tempeste. E mostra come, anche dopo la notte più lunga, possa apparire un “doppio arcobaleno”: una promessa di ripartenza che invita altri a non restare soli e a farsi aiutare.


