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Da Rabin a Netanyahu. Un viaggio in ascolto per capire Israele e Palestina

Pubblicato: 31/10/2025 13:01

Nella primavera del 1893 Matilde Serao lascia Napoli. S’imbarca. Direzione Alessandria d’Egitto. Il Cairo, le piramidi. Ma il suo obiettivo è in realtà la Palestina ottomana. Per capirla, nelle sue mille sfaccettature. Un mondo complesso. Dove vivono gli ebrei che non l’avevano mai lasciata e cominciano ad arrivare gli ebrei della diaspora, in fuga soprattutto dall’Europa dei pogrom. Theodor Herzl da qualche anno – il movimento sionista nascerà a Basilea nel 1897 – predicava la necessità del tornare nella patria ancestrale. Accanto a loro i turchi, i mussulmani, gli arabi, i beduini, i drusi, i cristiani “latini” nel segno di San Francesco, e quelli di tutti i riti cattolici, e di tutti gli scismi, in perpetua concorrenza fra loro. Un mondo plurale, nel nome di Dio.

Matilde Serao girerà tutta la Palestina, palmo a palmo. Non è una turista. Piuttosto una viaggiatrice, attenta sì ai panorami, ma innanzitutto alle culture. Al ritorno pubblicherà le sue impressioni con il titolo Nel paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina (Tocco, Napoli 1898). Sbarcata nella Soria – così si chiamava la costa palestinese – punta su Gerusalemme. Non è facile raggiungerla. <Or dunque – racconta -, per opera della civiltà, una ferrovia congiunge Jaffa, porto di mare, a Gerusalemme, che è sulla montagna. Il tragitto è di tre ore e mezzo. Parte un solo treno, ogni giorno da Jaffa per la città santa, alle due e mezzo pomeridiane>. Circa.

132 anni dopo Matilde Serao un altro giornalista viaggiatore punta sulla città santa dei monoteismi. <Viaggia in un ovattato silenzio – assicura – il treno fra Tel Aviv e Gerusalemme, arrampicandosi verso i circa 800 metri di altezza dove sorge questa pazza e meravigliosa città. È poco più di mezz’ora di viaggio>. Il mondo è cambiato. A Tel Aviv, il 14 maggio del 1948, David Ben Gurion pronunciò il discorso d’indipendenza dello Stato di Israele. E fu subito guerra. Senza droni.

Il mondo è cambiato. Il treno è veloce. Tutto è veloce. Ma la guerra è sempre dietro l’angolo. Ma il mondo è veramente cambiato? Le relazioni passate, presenti e future tra i popoli monoteisti della Palestina allora ottomana, poi mandataria inglese, sono realmente cambiate? O cambieranno? A due anni dalla strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre e mentre qualche spiraglio di una difficile pace si manifesta, è in fondo una riflessione sul presente e sul possibile futuro il cuore del lavoro del giornalista viaggiatore Adam Smulevich. Ha battuto spesso queste strade, ma nel suo nuovo libro-reportage – E sceglierai la vita. Guerra e pace, lungo le strade di Ytzhak Rabin (Minerva 2025) – fa un passo in avanti. Avrebbe potuto scrivere una biografia di Rabin, ma ha scelto – come Matilde Serao – di ascoltare, per capire che cosa vogliono, in che cosa sperano, gli ebrei che hanno il loro Stato da sempre sotto assedio, e i loro vicini arabi palestinesi che non lo vollero nel 1948, sognando di espellere gli ebrei dalla loro patria ritrovata.

Una guerra dopo l’altra. Poi i primi incontri a Oslo. Le trattative con l’Olp di Yasser Arafat, ancora un mito a Ramallah. Infine, sul prato della Casa Bianca, il 13 settembre 1993, davanti a Bill Clinton, Rabin e Arafat firmano l’accordo «per una pace equa, duratura e completa e una riconciliazione storica attraverso il processo politico». Un approdo ancora lontano. Nel suo discorso Rabin fu perentorio: «Siamo destinati a vivere insieme sullo stesso suolo, nella stessa terra. Noi, soldati tornati dalla battaglia macchiati di sangue, noi che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi, noi che abbiamo partecipato ai loro funerali e non possiamo guardare negli occhi i loro genitori, noi che veniamo da una terra dove i genitori seppelliscono i loro figli, noi che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi, vi diciamo oggi a voce alta e chiara: basta con sangue e lacrime. Basta».Clinton era commosso.

Non bastò quella commozione. Arafat fu ambiguo sulla rinuncia al terrorismo. “Dal fiume al mare” resta l’obiettivo del fondamentalismo arabo islamico. Hamas ne è l’erede. Reggerà l’intesa imposta da Donald Trump in accordo con i paesi arabi “moderati”? Ogni nuovo giorno può uccidere la speranza. È cronaca. Trent’anni fa la speranza crollò in un attimo. Anche Israele ha il suo fondamentalismo messianico. È  una democrazia. L’unica nel Medio Oriente. L’unica in cui ebrei e arabi hanno gli stessi diritti civili e politici. Ma ha anche seri problemi interni. Ancora in questi giorni gli haredim – gli ultraortodossi che a stento riconoscono lo Stato – scendono in piazza per essere esentati dal servizio militare. Il governo guidato da Benjamin Netanyahu, in attesa delle elezioni politiche del prossimo anno, non rinuncia al supporto dei partitini estremisti e suprematisti di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Tutto può accadere. Tutto è già accaduto. Il Premio Nobel per la Pace condiviso nel 1994 con Shimon Peres e Yasser Arafat non salvò Rabin dall’odio dal fanatismo che lo considerava un “traditore”.

La sera del 4 novembre 1995 aveva deciso di tenere un comizio a Te Aviv, in Piazza dei Re d’Israele, oggi a lui dedicata. «Vorrei ringraziare – scandì – ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele. […] La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dico da qualcuno che è stato un militare per 27 anni.» Non bastarono quelle parole. Yigal Amir, ebreo fanatico, venticinquenne studente di legge, sparò. Due colpi. Lo uccise.

Questo è il passato. Il viaggio di Adam Smulevich si dipana nel presente. Ascolta, tutti. Anche i palestinesi di Ramallah, Ascolta voci, tante, alla ricerca di una nuova speranza, in contesti complessi. Figli di una storia complessa. Ascolta Dalia, la figlia di Rabin. «Siamo un paese un po’ speciale», confessa. Ascolta Dvir Kariv, ex agente dello Shin Bet, il servizio segreto interno. Ascolta Robi Damelin, padre di David, ucciso da un terrorista palestinese. Ascolta Sergio Della Pergola, memore della sua vita giovanile in un campus, coinquilino di Ibrahim, «nazionalista comunista non religioso», che adorava Nasser. Ascolta Achinoam Nini, cioè la cantante Noa, con le sue origini yemenite. Ascolta il tassista B. che lo porta a Ramallah: «È la nostra Tel Aviv, ti piacerà». La Muqata è la sede dell’Anp. Qui un mausoleo conserva le spoglie di Arafat.

Smulevich ascolta. Tutte le voci possibili. Senza pregiudizi. Per capire. Leggere il suo E sceglierai la vita – appena uscito in libreria – aiuta a capire un mondo di cui tanto si parla senza conoscerne la storia e, soprattutto, l’anima. Per comprendere non basta andarci da turisti, magari per galleggiare nel Mar Morto, e neppure da pellegrini al Santo Sepolcro. Dove si incontrano, numerosissimi, i cattolici nigeriani perseguitati a casa loro. In fondo E sceglierai la vita è un invito a viaggiare per quelle strade, con lo spirito di Matilde Serao.

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