
A Roma, Giorgia Meloni ha accolto Viktor Orbán in un vertice che più di ogni altro si può definire un incontro tra conservatori. I due leader condividono la stessa idea di nazionalità, lo stesso richiamo alla identità nazionale come valore fondante della politica e dello Stato. Eppure, dietro le affinità ideologiche, si nasconde una trattativa diplomatica complessa, in cui l’Italia tenta di ricucire lo strappo tra Bruxelles e Budapest, sempre più evidente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
Secondo diversi analisti, la Commissione europea avrebbe riconosciuto al governo italiano un ruolo di mediatore tra le istituzioni comunitarie e la linea di Orbán, spesso in contrasto con quella degli altri Stati membri. Il premier ungherese, euroscettico di lunga data, rifiuta nuove sanzioni contro il petrolio russo e continua a muoversi su un terreno ambiguo, alternando dichiarazioni anti-europee a concessioni tattiche. Per Giorgia Meloni, che ambisce a consolidare la sua credibilità europea senza rompere i legami con l’ala conservatrice, il nodo politico è evidente: la vicinanza ideale non basta per sciogliere la matassa illiberale che accompagna l’Ungheria di Orbán.
Orbán l’equilibrista
“L’Europa non conta nulla.” Con queste parole, pronunciate a Roma, Orbán ha ribadito una posizione che non sorprende. Da tempo a Bruxelles si è abituati a vedere nell’Ungheria un partner ingombrante, incline alla sfida più che alla cooperazione. Dopo la prima esperienza da premier tra il 1998 e il 2002, Orbán è tornato al potere nel 2010 costruendo una democrazia illiberale che ha progressivamente ridotto gli spazi di libertà, ma ha consolidato il suo consenso interno.
La contraddizione del suo governo è nota: da un lato condanna Bruxelles e il liberalismo occidentale, dall’altro utilizza i fondi europei per sostenere la crescita economica. Attacca George Soros e le sue ONG, ma in gioventù ne fu sostenitore. Nel suo equilibrio tra Est e Ovest, Orbán agisce come un funambolo politico: critica l’Occidente, ma non rompe mai del tutto con esso; difende la sovranità nazionale, ma si affida al gas di Mosca. L’Ungheria ha firmato un contratto quindicennale per l’importazione di gas russo, bypassando l’Ucraina e privando Kiev dei diritti di transito.
A differenza di altri leader filorussi, Orbán non si è mai spinto fino a giustificare l’invasione dell’Ucraina, ma ha scelto una posizione di neutralità tattica, rifiutando l’invio di armi a Kiev e mantenendo aperto il dialogo con Vladimir Putin. È questa ambiguità, più che la sua ideologia, a preoccupare le cancellerie europee.
L’asse conservatore e il ruolo di Roma
Il progetto politico di Orbán è chiaro: costruire un’internazionale conservatrice europea capace di controbilanciare il potere centrista di Bruxelles, un blocco politico in cui l’Ungheria diventi il riferimento per i movimenti sovranisti del continente. Tuttavia, nel farlo, Orbán apre a investimenti cinesi e russi, stringe intese con Ankara, approva leggi restrittive sui diritti delle comunità LGBTQ+ e sull’indipendenza della magistratura, e sfida apertamente la Commissione.
In questo contesto, Giorgia Meloni cerca una mediazione complessa: mantenere l’asse conservatore senza isolare l’Italia dal cuore dell’Unione. Non è un caso che, secondo indiscrezioni, Budapest possa diventare sede di un futuro incontro tra Trump, Putin e Zelensky, un vertice simbolico che ridefinirebbe gli equilibri diplomatici globali. Meloni, consapevole del rischio di rottura con Bruxelles, prova a bilanciare l’amicizia con Orbán con la necessità di rimanere centrale nella politica europea.
La diplomazia non segue calcoli aritmetici, e la partita di Palazzo Chigi si gioca sul lungo periodo. Roma non può permettersi di perdere la fiducia dell’Europa, ma neppure di rinunciare al dialogo con chi, come Orbán, rappresenta una parte significativa del futuro politico del continente.


