
Walter Delogu parla con la voce rotta dal dolore. In una lunga intervista a La Repubblica, l’uomo, ex autista e guardia del corpo di Marco Pannella, racconta la tragedia più grande della sua vita: la morte del figlio Evan Delogu, appena diciottenne, scomparso in un incidente in moto. «Mio figlio era un angelo», dice, «il karma ha sbagliato mira: ero io quello da colpire». Parole che tagliano come lame, perché racchiudono il peso di una perdita e la rabbia di un padre che non riesce a trovare pace.
Delogu descrive Evan come «un ragazzo d’oro, onesto, sereno, equilibrato», un giovane che «aveva scelto una strada pulita, diversa dalla mia». Nelle sue parole si percepisce un orgoglio profondo, quello di un padre che vedeva nel figlio il proprio riscatto morale, la possibilità di lasciarsi alle spalle un passato di errori, dipendenze e violenza. «Con lui mi ero riscattato», racconta, «avevo trovato un senso, una direzione».

La morte di Evan, avvenuta all’improvviso, ha spezzato quell’equilibrio faticosamente conquistato. Walter non cerca attenuanti né spiegazioni metafisiche: «Non esiste giustizia divina in queste cose, solo un dolore che non passa mai». L’ex guardia del corpo di Pannella non nasconde le sue fragilità, né il senso di colpa che lo accompagna ogni giorno. «Mi sento in debito con la vita», confessa, «perché mio figlio era la parte migliore di me».
La tragedia si trasforma così in una riflessione più ampia sul rischio stradale giovanile e sulla fragilità della vita. Walter invita i ragazzi a «non sottovalutare mai la strada, a rispettare i limiti, a capire che basta un secondo per distruggere tutto». Il suo non è un rimprovero, ma un appello pieno di amore e paura, rivolto a chi ogni giorno prende in mano un volante o un manubrio senza pensare alle conseguenze.

Nel racconto emerge anche la solitudine del lutto. «Non c’è modo di spiegare cosa succede quando perdi un figlio», dice Delogu. «Ti manca l’aria, ti manca il senso. Ti svegli e non capisci più perché». La perdita di Evan ha aperto un vuoto che nessuna parola riesce a colmare. «Non c’è notte in cui non pensi a lui», aggiunge, «e ogni mattina ti chiedi come fare a vivere ancora».
La storia di Walter Delogu è anche una parabola di riscatto e dolore, di un uomo che ha attraversato l’inferno della droga, della galera, e della disperazione, e che aveva trovato in suo figlio la speranza di un futuro diverso. «Con Evan avevo smesso di avere paura del mondo», racconta, «avevo ricominciato a credere nelle persone». Ora quella speranza è ferita, ma non spenta.
Il padre di Evan sa che la vita non tornerà mai com’era prima, ma vuole trasformare la sofferenza in un messaggio per gli altri. «Se la mia storia può servire a qualcuno, allora parlo», dice. È il tentativo di dare un senso a un dolore insensato, di fare in modo che la memoria del figlio diventi un monito di prevenzione e consapevolezza per tutti i giovani.
Intorno alla famiglia Delogu si è stretta l’intera comunità di Bologna, colpita dalla tragedia e solidale con un padre che non smette di parlare, di raccontare, di ricordare. Le parole di Walter, crude e sincere, sono diventate un simbolo di umanità, un modo per ricordare che dietro ogni incidente c’è una storia, una famiglia, una vita interrotta.
«Evan era luce», dice infine Walter. «E quella luce continuerà a brillare, anche se io non riesco più a vederla». Una frase che racchiude l’essenza di un padre distrutto ma ancora capace di amore. In questo dolore c’è la verità più profonda: la forza dell’amore paterno che sopravvive alla morte e si trasforma in memoria, denuncia, speranza.


