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“La morte di mio figlio, la mia vita devastata”. Il dramma del campione di Serie A: parole strazianti

Pubblicato: 05/11/2025 09:09

In un’intervista a La Gazzetta dello Sport, Diego Fuser si racconta con sincerità e dolore, ricordando una carriera luminosa e una tragedia che gli ha cambiato per sempre la vita. L’ex centrocampista di Torino, Milan, Fiorentina, Lazio, Parma e Roma, oltre 400 presenze in Serie A, non è mai stato un divo da copertina, ma un professionista serio, riservato, amato dai tifosi. Nel 2015, però, il destino gli ha tolto il figlio Matteo, scomparso a soli 16 anni dopo una lunga malattia: «Mi ha cambiato la vita, devastandola per sempre. È una cosa che ti segna dentro, difficile da spiegare. Provi ad accettarlo ma cerchi risposte che non esistono».

Fuser ricorda gli esordi nelle giovanili del Torino, quando da bambino tifava Juventus per influenza del padre. «Mi portava lui allo stadio tutte le domeniche. Il mio idolo era Tardelli, mi piaceva da matti come stava in campo». Poi, crescendo, le cose cambiarono: «Dalla Primavera in poi non potevo più tifare Juve. Giocandoci contro capisci tante cose».

Nel 1989 arrivò la grande occasione con il Milan di Arrigo Sacchi, poi di Capello. «Il primo anno non ero ancora al livello giusto, ma al ritorno dal prestito alla Fiorentina ero convinto di potermi giocare le mie carte. Capello però provò Gullit esterno destro e funzionò, così a fine stagione chiesi di andare via».

Fu Dino Zoff a volere Fuser alla Lazio, dove il centrocampista visse uno dei periodi più intensi della carriera: «Scelsi i biancocelesti per lui. Sono stati quattro anni bellissimi, con la fascia da capitano e tante soddisfazioni. Dispiace solo per come è finita». Poi l’amara riflessione: «Mi hanno lasciato andare come fossi uno dei tanti. Mancini all’epoca aveva molto potere, Eriksson lo ascoltava tanto. Mandarono via me, Signori e altri: avevano altri piani».

Il passaggio al Parma segnò una nuova tappa, ma tre anni dopo arrivò la chiamata di Fabio Capello: «Prima di Roma-Parma mi si avvicinò durante il riscaldamento e mi chiese se sarei andato a giocare con loro. Dissi subito sì». Fuser tornò così nella capitale, ma stavolta con la maglia della Roma, scelta che non piacque ai tifosi laziali: «Non volevo scatenare polemiche, ma per noi calciatori è un lavoro. Ho sempre rispettato la Lazio, ma dopo tre anni a Parma non mi aspettavo reazioni così forti».

In giallorosso la prima stagione fu positiva, ma poi arrivarono le incomprensioni. «Sfiorammo il secondo scudetto consecutivo e giocammo la Champions League, ma l’anno dopo giocai poco. Avevo già la testa altrove, iniziavo ad avere problemi più grandi del calcio». Proprio in quel periodo la famiglia Fuser scoprì la malattia del figlio Matteo: «Scappavo dagli allenamenti per correre in ospedale. Abbiamo lottato tanto, ma purtroppo ci sono situazioni in cui nessuno può farci niente».

Il dolore per la perdita del figlio resta una ferita aperta. «Sono passati quattordici anni, ma niente è stato più come prima. La sua forza, però, mi ha insegnato tanto. Viviamo ogni giorno per lui». Parole che rivelano la profondità di un uomo segnato da una tragedia che ha travolto anche il mondo del calcio, un mondo spesso percepito come distante dalle fragilità umane.

Fuser non si nasconde nemmeno davanti ai rimpianti sportivi: «L’unico vero rammarico è la mancata convocazione all’Europeo del 2000. Avevo giocato tutte le qualificazioni, ma Zoff decise di non portarmi. È una ferita che non si è mai del tutto rimarginata».

Oggi, lontano dai riflettori, Diego Fuser continua a vivere il calcio con passione, ma con uno sguardo diverso, più umano e più profondo. La sua storia, tra successi e dolore, resta quella di un campione autentico che ha saputo affrontare la vita con la stessa grinta che metteva in campo ogni domenica.

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