
È la notte in cui Zohran Mamdani, 34 anni, viene eletto sindaco di New York, il primo musulmano nella storia della metropoli americana a guidarne il governo. Una vittoria che cambia il corso politico e simbolico della città, rivendicata dallo stesso Mamdani nel suo discorso: “New York è e sarà sempre la città degli immigrati”. Davanti ai suoi sostenitori, il giovane sindaco ha parlato con passione di uguaglianza e inclusione, lanciando anche un messaggio chiaro a Donald Trump: “Alza il volume”.
Mentre la folla festeggiava nelle strade di Harlem e del Bronx, sua madre, la regista Mira Nair, ha affidato la sua emozione a un messaggio semplice ma pieno di orgoglio su Instagram: “Zohran, che meraviglia”. Una frase che racchiude la storia di due generazioni legate da un’idea comune: dare voce a chi non ce l’ha.
Mira Nair, una vita tra cinema e impegno civile

Nata a Rourkela, nello Stato indiano dell’Odisha, e formatasi tra Delhi e Harvard, Mira Nair è una delle registe più influenti del cinema internazionale. Il suo esordio nel 1988 con “Salaam Bombay!”, premiato con la Caméra d’Or a Cannes e candidato all’Oscar, ha imposto uno sguardo realistico e partecipe sulle vite ai margini. Da lì è nata una carriera costruita sul dialogo tra culture, lingue e identità, con film come “Mississippi Masala”, “Il destino nel nome”, “Il fondamentalista riluttante”, “Queen of Katwe” e “Monsoon Wedding”, che nel 2001 le valse il Leone d’oro alla Mostra di Venezia.
Ogni sua opera è un atto politico e poetico insieme: raccontare il mondo dal punto di vista di chi di solito resta fuori dall’inquadratura. Il suo cinema, infatti, unisce India, Africa orientale e Stati Uniti in un unico filo narrativo, sempre fedele a un baricentro etico che parla di dignità, differenze e giustizia sociale.
Dare voce alle storie invisibili

Nel 2004, la regista fonda a Kampala, in Uganda, il Maisha Film Lab, un laboratorio che ha formato centinaia di giovani autori africani. Il motto che lo guida è chiaro: “Se non raccontiamo noi le nostre storie, non lo farà nessuno”. Con questa iniziativa, Nair ha trasformato il suo impegno artistico in un progetto concreto di emancipazione culturale, insegnando che il potere di narrare è il primo passo per conquistare spazio nella società.
Anche il suo impegno politico è sempre stato coerente e diretto. Nel 2013 rifiutò l’invito al festival di Haifa, dichiarando: “Andrò in Israele quando l’occupazione sarà finita”. Una posizione netta, che ha diviso l’opinione pubblica ma ha confermato la fermezza morale di un’artista che non separa mai arte e coscienza.
Una madre che ha educato alla libertà e all’identità
In un’intervista del 2013, Mira Nair raccontava che in casa si parlava “solo hindustani”, un modo per trasmettere al figlio le radici culturali senza rinunciare all’apertura verso il mondo. Descriveva Zohran come un bambino curioso e attento ai problemi sociali. Quelle parole oggi sembrano profetiche: il sindaco di New York è cresciuto con l’idea che l’identità non sia un limite, ma un ponte.
Durante la lavorazione de “Il fondamentalista riluttante”, la regista raccontò come l’11 settembre fosse stato uno choc profondo. “Ho scoperto che la città in cui vivo, costruita sul melting pot, improvvisamente guardava con sospetto chi aveva un aspetto mediorientale”. Da quel dolore nacque la spinta a portare sullo schermo il romanzo di Mohsin Hamid, un invito al dialogo e al superamento della paura.
Il filo invisibile tra cinema e politica
Il percorso di Mira Nair e quello di Zohran Mamdani si incontrano idealmente nel concetto di rappresentazione. Lei, attraverso il cinema, ha dato visibilità ai dimenticati; lui, con la politica, ora dà voce istituzionale a quella stessa moltitudine.
Da “Salaam Bombay!” a “Queen of Katwe”, la regista ha raccontato la dignità dei vinti, scegliendo spesso attori non professionisti, lingue locali e storie di mobilità sociale senza retorica. In parallelo, ha fondato la Salaam Baalak Trust per aiutare i bambini di strada in India e ha insegnato alla Columbia University, formando nuove generazioni di narratori.
Oggi, il trionfo politico del figlio rappresenta anche il successo silenzioso di quella pedagogia domestica fondata su valori universali: ascolto, empatia e il coraggio di raccontarsi. Così, nella famiglia Nair-Mamdani, cinema e politica diventano due strumenti dello stesso progetto: cambiare il mondo, partendo dalle storie di chi, fino a ieri, non aveva voce.


