
Una vicenda che riapre il dibattito sulle misure di sicurezza e sul reinserimento dei detenuti scuote la provincia di Varese. Elia Del Grande, 50 anni, di Cadrezzate, noto per aver ucciso la propria famiglia nel 1998, ha fatto parlare di sé dopo essersi allontanato dalla “casa lavoro” a Castelfranco Emilia, dalla quale era sottoposto a misura di sicurezza dopo aver scontato oltre 25 anni di carcere. La fuga, descritta come rocambolesca, è avvenuta grazie a fili elettrici legati tra loro, usati per calarsi da un muro di sei metri.
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In una mail inviata a Varese News, Del Grande spiega i motivi della sua decisione, criticando duramente le condizioni delle case lavoro italiane, definite “inadeguate” e lontane dall’obiettivo di reinserimento sociale. Secondo l’ex detenuto, queste strutture funzionano come veri e propri ospedali psichiatrici giudiziari dismessi nel 2015, destinati a persone con problemi psichiatrici senza posto nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Il percorso giudiziario e la misura di sicurezza
Del Grande non specifica la sua attuale località, ma la vicenda ripercorre la storia tragica del 6-7 gennaio 1998, quando l’uomo, con un complice, uccise a colpi di fucile la madre Alida, il padre Enea e il fratello Enrico, prima di tentare la fuga in Svizzera, dove venne arrestato dalla polizia cantonale.
Da allora, due processi, una condanna all’ergastolo ridotta a 30 anni per semi-infermità mentale, e una detenzione durata 26 anni e 4 mesi, terminata nel luglio 2023 con l’accesso alla libertà vigilata. Successivamente, la Sorveglianza ha optato per la misura della casa lavoro nel modenese, ritenendo Del Grande ancora socialmente pericoloso.

Le accuse alla struttura e la vita dopo il carcere
Nella mail, Del Grande racconta il proprio vissuto dopo l’uscita dal carcere: un lavoro conquistato con sacrificio, un equilibrio personale e familiare ricostruito, tutto distrutto dalla decisione del magistrato di Sorveglianza che lo ha nuovamente rinchiuso. Secondo l’ex detenuto, la realtà delle case lavoro è più repressiva rispetto al carcere, con persone internate anche per anni a causa della mancanza di una dimora o di una famiglia, nonostante vivano in un paese civile e con regole europee.
Del Grande sottolinea la stigmatizzazione che ancora subisce a causa del proprio passato, nonostante il pagamento della pena: «Qualsiasi pena uno possa pagare in questo Paese, rimarrai sempre la persona responsabile del gesto commesso», scrive nella mail.

Il dibattito sulle case lavoro
La fuga di Del Grande rilancia il dibattito sulla gestione delle misure di sicurezza in Italia. Le case lavoro, nate per reintegrare i detenuti nella società tramite il lavoro, secondo il racconto dell’ex detenuto, falliscono il loro scopo e ripropongono condizioni di detenzione più severe, con gravi carenze nella tutela dei diritti e del benessere dei reclusi.
L’episodio evidenzia inoltre le difficoltà di gestione dei soggetti ritenuti socialmente pericolosi dopo il carcere, mettendo in luce le lacune nel sistema italiano rispetto ad altri Paesi europei che adottano modalità di reinserimento più efficaci e rispettose dei diritti umani.
Conclusioni
La fuga di Elia Del Grande dalle case lavoro e la sua testimonianza diretta in mail a Varese News riaprono un caso controverso che intreccia cronaca nera, giustizia e diritti dei detenuti. La vicenda mette in discussione l’efficacia delle misure di sicurezza e delle strutture destinate al reinserimento, evidenziando come il sistema italiano fatichi ancora a conciliare sicurezza pubblica e recupero sociale dei detenuti, lasciando spazio a situazioni di disagio e fughe improvvise come quella appena avvenuta.


