
Ci sono persone che entrano nella vita collettiva senza alzare la voce, senza pretendere il centro della scena, eppure finiscono per diventare irrinunciabili. Beppe Vessicchio era così: un sorriso appena accennato, la barba che sembrava fatta per raccontare storie, lo sguardo di chi sapeva ascoltare prima ancora di dirigere. Non era solo un direttore d’orchestra, era una presenza che conosceva il tempo giusto delle emozioni: un gesto di mano, una pausa, uno stacco improvviso che faceva capire che la musica – quella vera – non è mai una questione di rumore, ma di profondità paziente.
Lo abbiamo conosciuto tutti a Sanremo, ma in realtà lui stava da un’altra parte, come se quel palco fosse solo un passaggio obbligato verso ciò che contava davvero: la musica come atto umano, non come spettacolo. Vessicchio aveva la rara capacità di far sembrare semplice ciò che è complicatissimo, di accompagnare una canzone senza sovrastarla, di far brillare la voce di un artista senza mai mettere la propria davanti. E questa, nell’epoca dell’egolatria, è una forma di eleganza quasi rivoluzionaria.
C’era poi una sua inconfondibile leggerezza, quel modo unico di attraversare la popolarità con il passo laterale di chi non si prende mai troppo sul serio. La sua ironia – sempre morbida, mai esibita – era la prova che il talento vero non ha bisogno di mostrarsi, e la sua autoironia ricordava a tutti che anche un direttore d’orchestra può ridere di sé, se sa di avere dietro – e dentro – una musica che parla più forte di qualsiasi posa. Era l’eleganza di chi sa sorridere senza sbracare, di chi entra nel meme senza diventare macchietta, di chi sa che la popolarità è solo un effetto collaterale della grazia.
Era diventato un simbolo pop senza cercarlo, amato da intere generazioni che forse non saprebbero citare una sinfonia ma riconoscevano subito quel suo “maestro, partiamo?”. In mezzo a una TV sempre più urlata, lui rappresentava il contrario: il garbo, la competenza, la musica suonata, non raccontata. Si dice spesso che alcuni professionisti “non sbagliano mai”, ma nel suo caso era diverso: non sbagliava perché sapeva che ogni nota ha un peso preciso, e che il primo dovere di chi dirige è rispettarla.
Oggi lo piangono i fan, i colleghi, gli artisti che non avrebbero mai cantato allo stesso modo senza di lui. Ma soprattutto lo piange il pubblico che non sa definire cosa ha perso, e però lo sente. Perché Vessicchio era una di quelle presenze che non cercavano visibilità ma lasciavano tracce. Una musica che resta anche dopo l’ultima nota, un applauso che continua quando il palco è già buio.
Se n’è andato così, con la stessa discrezione con cui aveva vissuto: senza clamori, ma lasciandoci un vuoto che suonerà come un accordo sospeso. Forse è questo il senso ultimo della sua eredità: capire che la musica non è mai finita, è solo in attesa di essere ripresa da mani capaci di ascoltare. Lui lo faceva. E ora tocca a noi ricordarlo non con il silenzio, ma con quella gratitudine che somiglia tanto a una carezza.
Ciao Beppe. Ovunque tu sia, attacca pure: noi siamo pronti ad ascoltare.


