
Gira e rigira, il centrosinistra si ritrova sempre al punto di partenza. La domanda che aleggia da mesi, e che nessuno sembra voler affrontare apertamente, è sempre la stessa: chi sarà il candidato premier della coalizione progressista, o del cosiddetto “campo largo”? Il nodo, tutt’altro che secondario, ruota intorno a due nomi ormai inevitabili: Elly Schlein e Giuseppe Conte. Entrambi leader di partito, entrambi simboli di un’area politica che, pur condividendo obiettivi generali, fatica a trovare una direzione unitaria.
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Eppure, tra gli addetti ai lavori, si parla anche di una possibile “terza via”: un nome esterno, come il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi o, più di recente, la vicepresidente del Coni Silvia Salis. Per ora la linea ufficiale resta quella del rinvio. “Quando sarà il momento, decideremo”, è la frase che riecheggia nelle stanze del Pd e del Movimento 5 Stelle. Ma quel momento sembra non arrivare mai. Non solo non si è deciso chi guiderà la coalizione, ma manca perfino un accordo sul metodo e sui tempi per arrivarci.
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Chi farà il candidato premier della coalizione progressista
E proprio questa incertezza ha generato un piccolo terremoto politico dopo un retroscena pubblicato dal Corriere della Sera e firmato da Francesco Verderami. L’articolo sosteneva che Dario Franceschini, uno dei grandi strateghi del Pd e tra i primi sostenitori di Schlein, si fosse convinto della necessità di una divisione dei ruoli: Schlein segretaria del partito, Conte candidato premier.
Un’ipotesi esplosiva, che Franceschini ha immediatamente smentito con toni durissimi. “Tecnicamente si chiama: seminar zizzania”, ha scritto in una nota diffusa poche ore dopo l’uscita dell’articolo. L’ex ministro ha definito “inventate” le riunioni e le frasi che gli sarebbero state attribuite, denunciando “il solito gioco che si ripete da anni nel nostro campo: eleggere un leader e poi lavorare per indebolirlo”. E ha ribadito con forza il suo sostegno a Schlein: “Ho sostenuto e sostengo convintamente Elly Schlein nel lavoro straordinario che sta facendo per la coalizione e il Pd. Sul tema premiership poi sta tutto scritto nello Statuto del partito: il segretario è il candidato premier e, in caso di primarie di coalizione, è il candidato del partito alle primarie. Chiuso il tema. Il resto è zizzania”.

Eppure, il “tema” non è affatto chiuso. Perché proprio quello che Franceschini indica come ovvio – e cioè che lo statuto del Pd stabilisca la leadership automatica del segretario – è tutt’altro che scontato nel contesto attuale. Conte, infatti, non sarebbe disposto né ad accettare la candidatura automatica di Schlein né, e questo è il vero punto di frizione, a partecipare a eventuali primarie di coalizione. Secondo fonti interne, “non accetterà mai, perché è convinto che il candidato naturale sia lui”. Del resto, spiegano, “non si spiega altrimenti il fatto che dopo la batosta delle Europee, invece di avvicinarsi al Pd, Conte si sia allontanato sempre di più”.
La convinzione dell’ex premier è semplice: lui resta, nell’immaginario collettivo, il volto più credibile per Palazzo Chigi. Ha già ricoperto quel ruolo, ha guidato il Paese in uno dei momenti più difficili – la pandemia da Covid-19 – e mantiene una popolarità personale che, secondo diversi sondaggi, supera quella di Schlein persino tra una parte dell’elettorato democratico. “Perché lo ha già fatto, perché ha autorevolezza”, è la spiegazione che circola nei retroscena di partito. Una certezza personale che Conte non sembra intenzionato a mettere in discussione.
Il leader del Movimento 5 Stelle è consapevole della debolezza numerica del suo partito, ma non la considera un ostacolo. Nella sua visione, la leadership non dipende dalla forza parlamentare o dal numero di voti, bensì dal consenso trasversale e dalla capacità di parlare a mondi diversi. “Chi l’ha detto che il candidato premier deve essere il segretario del partito più grande?”, avrebbe confidato ai suoi collaboratori. “E chi l’ha detto che servano le primarie?”. Da qui derivano le sue ultime mosse politiche, che molti osservatori hanno letto come segnali di un cambio di strategia: l’accento posto sui temi della sicurezza, il no alla patrimoniale, e più in generale un linguaggio meno ideologico e più pragmatico.

Conte punta a costruire un profilo da leader “post-partitico”, in grado di superare le tradizionali divisioni tra destra e sinistra. Vuole rivolgersi a un elettorato più ampio, ai moderati, ai delusi dalla politica, a coloro che non si riconoscono più nei vecchi schemi ideologici. In questo senso, il suo progetto riprende lo spirito originario del M5S, ma con toni più istituzionali e meno di rottura. Una scommessa rischiosa, ma potenzialmente capace di ribaltare gli equilibri del campo progressista.
Il paradosso è che, mentre il centrosinistra discute del “chi”, la destra governa indisturbata, con Giorgia Meloni saldamente a Palazzo Chigi e un centrodestra che, pur tra tensioni, mantiene una struttura di comando chiara. Dall’altra parte, invece, il rischio è che la mancanza di un volto unico finisca per minare ogni possibilità di alternativa. Ogni settimana che passa senza una decisione condivisa rende più difficile costruire un programma comune, una narrazione coerente, una squadra credibile.
E così, mentre Schlein lavora per allargare la base del Pd e Conte ricalibra la sua immagine da “premier del popolo”, l’opposizione si ritrova sospesa tra due ambizioni e nessuna regia. In attesa di una scelta che, inevitabilmente, definirà il futuro del centrosinistra: un leader unico o due solitudini parallele destinate a non incontrarsi mai.


