
Il dramma umano e giudiziario di Alessia Pifferi, condannata a 24 anni di reclusione per la tragica morte della figlia Diana di soli diciotto mesi, emerge con straziante chiarezza da una lettera scritta dal carcere e indirizzata alla madre, Maria Assandri.
Queste parole, rese pubbliche durante la trasmissione televisiva “Vita in Diretta”, non sono solo una manifestazione di desiderio di riconciliazione familiare, ma anche un crudo sfogo del dolore interiore che la donna sostiene di aver represso dal giorno in cui la sua bambina è venuta a mancare. L’espressione della sofferenza, così intensa e violenta, rivela la profondità del tormento che l’imputata afferma di vivere dietro le sbarre, un dolore che si scontra e si intreccia con il giudizio implacabile della giustizia e dell’opinione pubblica.
Il desiderio insopprimibile di sfogare il dolore
La parte più toccante e drammatica della missiva è senza dubbio quella in cui Alessia Pifferi immagina un ipotetico incontro con la figlia defunta, se le fosse concesso di recarsi al cimitero. Le sue parole descrivono un bisogno quasi fisico di liberarsi del fardello emotivo che la sta schiacciando. “Se potessi andare a trovare al cimitero mia figlia Diana (morta a 18 mesi, ndr.) esternerei tutto il dolore e la sofferenza che tengo dentro da quel maledetto giorno, gridando, dando pugni e testate sulla lapide di mia figlia”, confessa la donna.
Questa immagine, così forte e disturbante, dipinge il ritratto di una persona che si sente intrappolata nel proprio tormento interiore, un tormento che cerca una via d’uscita violenta e disperata. Non si tratta di una semplice manifestazione di tristezza, ma di una reazione estrema alla perdita e al senso di colpa o di impotenza che la condanna ha amplificato, trasformandosi in una vera e propria agonia emotiva. L’esternazione di un dolore così viscerale e incontenibile mira a sottolineare la profondità della sua disperazione e il costo psicologico della tragedia che ha segnato la sua vita e quella della sua famiglia.
La percezione del rancore familiare
Oltre alla narrazione del suo personale travaglio, la Pifferi dedica spazio anche ai rapporti tesi con i suoi familiari, in particolare con la sorella Viviana. Nelle sue riflessioni dal carcere, la condannata esprime una profonda amarezza per ciò che percepisce come un’evoluzione negativa nei sentimenti della sorella. “Penso che l’odio e la sofferenza di mia sorella Viviana non siano più odio, ma una vendetta personale bruttissima”, scrive Pifferi.
Questa frase evidenzia la frattura insanabile che si è creata all’interno del nucleo familiare a seguito della tragedia e del conseguente processo. Alessia Pifferi sembra interpretare la distanza e l’ostilità di Viviana non più come una comprensibile reazione al dolore condiviso, ma come un atto punitivo deliberato, un elemento che aggrava ulteriormente la sua già difficile condizione di reclusa. Questa percezione di “vendetta” suggerisce una totale incomprensione reciproca e la difficoltà di ricomporre il legame familiare, un ulteriore elemento di sofferenza che si aggiunge al suo isolamento.
Un appello alla madre per il perdono e il ricongiungimento
Nonostante il baratro emotivo e la percezione di essere osteggiata da parte della sorella, la lettera si conclude con un toccante appello alla madre, Maria Assandri. Alessia Pifferi cerca un barlume di affetto e una possibilità di riconciliazione con la figura materna. “Voglio dire a mia madre che, nonostante tutto, le voglio bene”, afferma con semplicità e intensità. L’espressione di questo amore filiale, pur nel contesto della sua drammatica situazione, è seguita da un accorato desiderio di ristabilire un contatto. La condannata desidererebbe “poterla vedere, parlarle, scriverle e poterla riabbracciare”. Questo anelito al contatto fisico e al dialogo rappresenta l’estremo tentativo di ricucire lo strappo con la sua famiglia e di trovare un minimo di conforto umano in un momento di estrema solitudine. La richiesta di un incontro o di una comunicazione è un elemento cruciale, poiché rappresenta la sua necessità di validazione e perdono, o quantomeno di comprensione, da parte della persona che le ha dato la vita. La sua condizione di detenuta condannata rende ogni desiderio di ricongiungimento un obiettivo estremamente difficile da raggiungere, ma la persistenza di questo desiderio sottolinea l’importanza del legame materno come potenziale ancora di salvezza emotiva.


