
Quando il rovescio di Carlos Alcaraz è volato oltre la linea di fondo, chiudendo il match point e consegnando a Jannik Sinner un nuovo trionfo alle ATP Finals, la scena più forte non è arrivata dalla racchetta del campione, ma dalla sua panchina. Umberto Ferrara, il preparatore che da mesi gli rimette il corpo in ordine e la testa in pace, è crollato in un pianto disperato, incontenibile, quasi liberatorio. Si copriva il volto, si scuoteva, mentre il resto del team travolgeva Jannik in un abbraccio collettivo. In quelle lacrime non c’era solo la gioia del successo, ma la fine di un incubo condiviso, perché pochi come lui sanno quanto profondamente quel caso Clostebol abbia segnato il numero uno italiano.
Il ritorno, le critiche e il cerchio che finalmente si chiude
Ferrara è rientrato al fianco di Sinner solo da pochi mesi, richiamato a luglio dopo una parentesi altrove, e da allora ha camminato ogni giorno dentro la pressione che ha accompagnato l’azzurro per tutta la stagione. Ha rimesso mano ai suoi automatismi, ha ricostruito fiducia e condizione, ha vissuto da dentro il peso di un finale di anno in cui Jannik non poteva permettersi passi falsi. E quando a Torino il titolo più importante della loro “fase due” è diventato realtà, la diga è saltata. Non era solo una vittoria sportiva: era il segno che quella scelta – richiamarlo, rimettere insieme i pezzi, fidarsi di nuovo – aveva finalmente trovato la sua verità.
La ferita del caso Clostebol e il legame con Sinner
Per Ferrara questa notte non è stata un punto d’arrivo, ma una liberazione. La positività di Sinner al Clostebol, causata dalla contaminazione involontaria di un prodotto utilizzato in un trattamento, lo aveva travolto in pieno. Era stato lui ad acquistare quel prodotto, era lui ad aver portato in squadra il fisioterapista coinvolto, ed era stato lui – pur senza responsabilità dirette – a diventare suo malgrado un bersaglio. Sinner aveva scelto di separarsi, ma senza mai metterne in dubbio l’onestà, e il ritorno nel team era stato insieme una riconciliazione professionale e un gesto umano. Per questo, davanti al trofeo più luminoso, Ferrara è crollato: era tutto ciò che non si può dire, ma che si può soltanto piangere.
Nel suo pianto c’erano mesi di attesa, le discussioni sui giornali, il dibattito sulla credibilità di Sinner, la paura di averlo esposto a un rischio imprevisto, la sensazione di essere finito al centro di qualcosa più grande di lui. C’erano le analisi, le carte, gli avvocati, i sospetti, i commenti avvelenati che hanno accompagnato il team quando la vicenda è esplosa mediaticamente. E c’era la gratitudine – quella che non si dice ma si sente – di essere tornato proprio lì, accanto al giocatore che conosce meglio di chiunque altro. Per questo, nella notte di Torino, Ferrara ha pianto davanti al mondo: il sole è tornato, sì, ma nessuno in quella panchina potrà davvero dimenticare il temporale.


