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Ornella Vanoni e l’abito dell’ultimo saluto: quando lo stile diventa identità, anche nella morte

Pubblicato: 24/11/2025 09:39

Non era una scelta macabra, ma un gesto di identità: Ornella Vanoni aveva deciso da tempo quale sarebbe stato il suo vestito funebre. «L’abito ce l’ho, è di Dior», aveva raccontato con quella naturalezza elegante che l’ha sempre accompagnata. Per lei, definire il proprio outfit dell’ultimo viaggio non era un vezzo, ma una dichiarazione di coerenza estetica: l’idea che si possa restare sé stessi fino all’ultimo dettaglio, anche nel momento del congedo.

Scegliere l’abito per il proprio funerale non è vanità, ma autodeterminazione. È affermare la propria immagine, la propria storia, il proprio stile come parte integrante della biografia personale. Un modo per dire: così sono stata, così voglio essere ricordata.

Gli addii con dress code che hanno fatto storia

La decisione di Vanoni non è isolata. Molti personaggi celebri hanno voluto controllare anche quest’ultimo aspetto della loro narrazione.
Marilyn Monroe, secondo alcune biografie, fu sepolta con un abito verde di Emilio Pucci, scelto dal suo guardaroba personale: un capo che restituiva fedelmente la sua silhouette iconica.

Non solo Ornella Vanoni

La rivoluzionaria Vivienne Westwood aveva persino dato un dress code al suo funerale: «If in doubt, dress up». Ne nacque un’ultima sfilata di tartan, fiori e stravaganza, un omaggio perfetto al suo spirito punk e visionario.

Anche l’indimenticabile Isabella Blow aveva lasciato indicazioni precise: un grande cappello di Philip Treacy e un abito in broccato rosso e oro di Alexander McQueen, scelta teatrale e coerente con una vita vissuta tra provocazione e avanguardia.

E ancora: voci mai confermate sostengono che Giorgio Armani volesse un rigoroso dress code sobrio per chi avrebbe presenziato alla camera ardente, un’eco della sua estetica minimalista. Nei funerali reali, come quello della Regina Elisabetta II, l’abito funebre diventa protocollo: Kate Middleton indossò un McQueen con cappello Dior, simbolo di un’eleganza studiata e rispettosa.

Le radici di questa pratica sono antiche. La regina Cristina di Svezia, nel XVII secolo, lasciò una lista dettagliata delle sue vesti funebri: mantello con ermellino, guanti di seta, scettro e corona. Segno che l’abito, anche nella morte, era già uno strumento di rappresentazione.

Perché scegliamo l’outfit della morte

L’abito funebre diventa così un’estensione dell’identità. Una scelta che serve a non lasciare che siano gli altri a decidere come verremo ricordati. È un rito di controllo, di cura, di continuità estetica: una forma di presenza oltre l’assenza.

Per una figura come Vanoni, l’abito Dior non è un dettaglio, ma un tassello della sua autobiografia. Una donna che ha attraversato decenni di musica e moda con eleganza, ironia e autenticità non avrebbe potuto immaginare un finale diverso.
Nella memoria di chi la amerà per sempre, quel vestito resterà un simbolo: questa era Ornella, così voleva apparire, così scelto di essere ricordata.

L’ultima mise non è solo un vestito. È un racconto, un gesto di libertà, un’impronta stilistica che attraversa il tempo. Ornella Vanoni lo sapeva bene. E ha scelto, fino all’ultimo, con la stessa grazia con cui ha vissuto.

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