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“Quella raccomandazione…”. Ranucci, rivelazione shock: “Come sono entrato in Rai!”

Pubblicato: 24/11/2025 08:52

Nell’intervista al Foglio, Sigfrido Ranucci si definisce con un sorriso amaro: «Non sono un martire». Rivela di aver posseduto una sola tessera di partito, quella della Dc, precisamente della corrente sbardelliana guidata da Vittorio Sbardella. «Me la fecero loro quando ero ragazzo, neanche lo sapevo», racconta. Cresciuto in una famiglia in cui il padre era brigadiere della finanza, ammette di avere, su alcune questioni, idee vicine alla destra legalitaria, pur continuando a definirsi un cattocomunista.
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La sua infanzia alla Garbatella è un altro tassello importante. Chiamarsi Sigfrido in un quartiere così popolare non era semplice, tanto che tutti gli amici lo conoscevano come Lello. Il nome gli era stato dato in omaggio al nonno e alla passione familiare per Wagner, anche se immaginare l’Anello dei Nibelunghi tra le strade del quartiere romano, ammette Ranucci, era tutt’altro che naturale.

Politica, processi e libertà professionale

Sulla politica, il giornalista è netto: «Non entrerò mai. Non mi interessa e non mi identifico in nessuno dei partiti che adesso mi tirano per la giacchetta». Del Pd dice che gli esprime solidarietà «ma non è che mi amino particolarmente». Del M5s, invece, osserva che alcuni hanno sempre pensato che Report fosse «roba loro», aspettandosi un trattamento di favore: «E invece no».

Ranucci ricorda anche i numerosi procedimenti legali affrontati negli anni. «Ho due o tre processi aperti, su circa duecento atti di citazione e altre azioni legali. Ma non ho mai perso una causa». Tra i temi più delicati toccati, cita la vicenda della bomba, spiegando che la redazione aveva scoperto «mitragliatrici nascoste in un cantiere navale», collegate a prestanome della camorra impegnati nel traffico di armi verso la Libia. Ribadisce però un punto per lui fondamentale: «La politica non c’entra assolutamente nulla».

Un percorso in Rai iniziato per caso

Nella stessa intervista, Ranucci ricorda gli esordi in Rai con una dose di ironia. «Entrai con la raccomandazione della segretaria di un dirigente cui davo lezioni di tennis». Era il 1989 e lui stesso ammette che quelle lezioni le faceva «in nero»: «E meno male che allora non c’era Report, perché mi avrebbero fatto il paiolo», scherza. Quell’episodio segna il vero inizio di una carriera che lo avrebbe portato, anni dopo, a guidare uno dei programmi d’inchiesta più seguiti del Paese.

Tra Rai, La7 e la libertà di Report

Ranucci conferma anche un incontro recente con Urbano Cairo, durato oltre due ore, inizialmente legato alla proposta di pubblicare un libro con una casa editrice del gruppo. «Abbiamo parlato anche di televisione», aggiunge. Ma chiarisce di voler restare in Rai, decisione che, sottolinea, «dipenderà dalla Rai, non da me».

Eppure il giornalista non esclude scenari alternativi: il marchio Report è di proprietà dell’azienda pubblica e non potrebbe essere trasferito su La7, ma un «New Report» sì. In quel caso, afferma, l’intera squadra lo seguirebbe: «Se mi sposto io, qua non ci rimangono nemmeno i cassetti». Un modo netto per ribadire che il cuore del programma non è solo un titolo, ma la sua libertà editoriale, quella che ha permesso, fino a oggi, di portare in tv inchieste complesse e spesso scomode.

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Ultimo Aggiornamento: 24/11/2025 08:53

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