
L’apparente unità tra maggioranza e opposizioni sulla violenza di genere si è rivelata un’illusione. Il caos esploso al Senato sul disegno di legge che introduce il principio del consenso libero e attuale ha mostrato quanto fragile fosse quel fronte comune e ha lasciato una vittima politica evidente: la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella, rimasta alla Camera in attesa del voto sul reato di femminicidio mentre, a Palazzo Madama, l’accordo raggiunto nei giorni precedenti veniva fatto saltare.
Roccella, convinta di poter celebrare un successo politico nel giorno simbolico del 25 novembre, aveva parlato di «momento storico» nel suo intervento iniziale. Ma la giornata, che sembrava segnata da un risultato bipartisan, è stata travolta da un’improvvisa frenata interna alla maggioranza, modificando completamente lo scenario politico previsto.

A Palazzo Madama tutto era pronto per chiudere rapidamente la riforma del reato di violenza sessuale, frutto del lavoro congiunto delle relatrici Michela De Biase (Pd) e Carolina Varchi (FdI) e sostenuto da un patto diretto tra Elly Schlein e Giorgia Meloni. L’intesa si è però spezzata quando la Lega ha chiesto nuovi approfondimenti e ulteriori audizioni in Commissione Giustizia, facendo abbandonare l’Aula al centrosinistra.
Secondo ricostruzioni parlamentari, sarebbe stato Matteo Salvini a orchestrare la mossa, imponendo lo stop al testo e costringendo Fratelli d’Italia e Forza Italia a seguirlo per evitare una spaccatura visibile nella maggioranza. Una scelta che molti osservatori considerano una vera e propria trappola politica per Meloni all’indomani delle elezioni regionali, finalizzata a indebolirne la leadership.
Il presidente del Senato Ignazio La Russa, inizialmente ottimista, ha poi ammesso che la Commissione è libera di fermarsi per ulteriori valutazioni. Ma il rinvio rischia di non essere breve: nella maggioranza pesano le resistenze dell’area più conservatrice, ostile all’introduzione del principio di consenso attuale, e il timore di una norma percepita come troppo avanzata dai settori più tradizionalisti.

Alla Camera, intanto, il voto sul reato di femminicidio è proseguito senza intoppi. Le opposizioni, con il fiocchetto rosso appuntato, hanno ritirato gli emendamenti in linea con il patto Meloni-Schlein, fatta eccezione per il M5S. Molti deputati hanno però sottolineato che l’inasprimento delle pene è insufficiente senza investimenti nei centri antiviolenza e senza un serio percorso di educazione sessuale e affettiva nelle scuole.
La situazione è precipitata quando la notizia del mancato accordo al Senato è arrivata alla Camera. Debora Serracchiani ha denunciato il voltafaccia della maggioranza, seguita da Maria Elena Boschi e Devis Dori. Le opposizioni hanno parlato di sfiducia implicita alla premier e chiesto una sospensione del voto finché Roccella non avesse chiarito. Ma la ministra ha scelto il silenzio, interpretato come imbarazzo o come adesione alle scelte del suo stesso fronte.
Le critiche sono immediatamente esplose: Avs ha definito «surreale» il comportamento della ministra, mentre il Movimento 5 Stelle ha parlato apertamente di «tradimento» chiedendone le dimissioni. Schlein ha ricordato di aver verificato personalmente l’accordo con Meloni meno di una settimana prima, avvertendo che sarebbe «gravissimo» se la retromarcia fosse una conseguenza delle regionali, e dunque una resa dei conti consumata sulla pelle delle vittime.
Meloni, sui social, ha celebrato solo l’approvazione del reato di femminicidio senza citare il disegno di legge sul consenso. Nell’intervista rilasciata poche ore prima aveva ribadito la linea conservatrice della destra su famiglia ed educazione, evitando di menzionare la riforma in discussione. Per molti analisti, la premier non poteva ignorare quanto stava accadendo al Senato: un segnale che nel rapporto tra Meloni e Salvini è in corso una partita politica delicata, destinata a pesare sull’unità della maggioranza.


