
Il primo dicembre 2025 si è giunti a una svolta significativa in uno dei filoni processuali legati al tragico caso di Diana Pifferi, la bambina morta di stenti dopo essere stata lasciata sola per giorni dalla madre, Alessia Pifferi. Il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) di Milano, Roberto Crepaldi, ha emesso una sentenza di assoluzione completa per cinque professionisti coinvolti: l’avvocata difensora di Alessia Pifferi, Alessia Pontenani, quattro psicologhe e lo psichiatra Marco Garbarini. La formula adottata dal giudice è stata quella del “perché il fatto non sussiste“, una decisione che smonta completamente le accuse mosse dalla Procura.
Le richieste di condanna del Pubblico Ministero, Francesco De Tommasi, arrivavano fino a quattro anni di reclusione per i reati contestati a vario titolo, ovvero favoreggiamento e falso. Nonostante la condanna di Alessia Pifferi sia stata già pronunciata in appello a ventiquattro anni di carcere per la morte della figlia Diana, questa sentenza riabilita la condotta difensiva e consulenziale che era stata messa sotto accusa. Le motivazioni complete di questo verdetto, attese con grande interesse, saranno depositate e rese note al pubblico entro i prossienti trenta giorni.
Il cuore del contestato piano difensivo
Il nucleo centrale delle pesanti accuse mosse dalla pubblica accusa ruotava attorno all’ipotesi di un presunto piano illecito, architettato per ingannare la Corte e ottenere una riduzione della pena per Alessia Pifferi. Secondo l’impianto accusatorio del Pubblico Ministero, le psicologhe e i consulenti avrebbero deliberatamente tentato di falsificare la condizione psichica della detenuta. L’atto più contestato riguardava l’attestazione di un quoziente intellettivo (QI) di 40 per Alessia Pifferi, un valore che indica un “deficit grave” e che avrebbe potuto aprire la strada al riconoscimento di un vizio parziale o totale di mente. La Procura sosteneva che tale test, in particolare il Wais, non dovesse essere somministrato poiché Alessia Pifferi, a detta loro, non era affatto un soggetto a rischio di atti anticonservativi e si presentava in carcere come una donna “lucida, orientata nel tempo e nello spazio, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e determinata”. Questo agire, per il PM, aveva l’unico e preciso scopo di fornire una solida base documentale che consentisse alla difesa di richiedere e, possibilmente, ottenere in giudizio la “tanto agognata perizia psichiatrica”. L’obiettivo finale di questa operazione, sempre nell’ottica della pubblica accusa, sarebbe stato quello di cercare in ogni modo di evitare alla Pifferi il massimo della pena detentiva.
Le accuse di ‘imbeccamento’ e l’uso di protocolli
Il Pubblico Ministero aveva calcato la mano sulla modalità con cui le professioniste avrebbero interagito con Alessia Pifferi. L’accusa parlava esplicitamente di un vero e proprio ‘imbeccamento’ dell’imputata da parte delle indagate. Questo ‘imbeccamento’ si sarebbe manifestato anche attraverso l’uso di protocolli per la somministrazione dei test che presentavano, secondo l’accusa, “punteggi già inseriti” o comunque manipolati. L’obiettivo sarebbe stato quello di indirizzare le risposte della Pifferi affinché si potesse giungere all’accertamento di un deficit cognitivo attraverso la perizia psichiatrica. L’accusa riteneva che questa attività, sebbene formalmente parte di una strategia difensiva, avesse travalicato i limiti della legalità, non potendo essere considerata una lecita attività di supporto difensivo. Le psicologhe, in particolare, sarebbero andate oltre il loro mandato professionale somministrando test ritenuti “incompatibili con le caratteristiche psichiche effettive della detenuta”. Inoltre, i colloqui clinici sarebbero stati “falsamente annotati nel diario clinico”, in modo da creare una narrazione coerente con l’obiettivo difensivo. Lo psichiatra di parte, Marco Garbarini, era accusato in modo specifico di aver “eterodiretto” Alessia Pifferi nelle risposte da fornire, compromettendo l’autenticità dei risultati. Tutta questa impalcatura accusatoria è stata però respinta dal giudice Crepaldi con la formula dell’insussistenza del fatto.
Le reazioni dei difensori e la riabilitazione professionale
La pronuncia del GUP ha ovviamente suscitato grande soddisfazione e sollievo tra i professionisti coinvolti e i loro legali, che hanno accolto la sentenza come una riaffermazione della correttezza e della liceità della loro condotta. L’avvocato Corrado Limentani, difensore della collega Alessia Pontenani, ha espresso fiducia nell’esito, sottolineando l’assenza di elementi probatori a carico della sua assistita: “Confidavamo in questo esito: sulla mia assistita non c’era nulla. Questo processo parallelo non doveva neanche iniziare e ha causato danni gravissimi“. Le sue parole mettono in luce il peso emotivo e professionale che questo procedimento ha avuto sui soggetti coinvolti. Sulla stessa linea di pensiero si sono espressi gli avvocati Adriano Bazzoni e Mirko Mazzali, anch’essi difensori di alcuni degli imputati. Hanno definito la sentenza come “una sentenza giusta che ridà dignità a questi professionisti“. La sentenza non solo assolve i professionisti dalle specifiche accuse di falso e favoreggiamento, ma sancisce anche, implicitamente, la legittimità delle strategie difensive e del supporto psicologico e psichiatrico fornito in sede di indagine e preparazione processuale, riabilitando la loro immagine professionale dopo un periodo di grave incertezza. L’esito del processo parallelo, dunque, chiude una fase estremamente delicata, separando nettamente la responsabilità penale della madre per la morte della figlia dalla correttezza del lavoro svolto dai suoi consulenti e legali.


