
Arriva poco prima delle 9, avvolto nel silenzio solenne del Foro Italico ancora semivuoto, il feretro di Nicola Pietrangeli. La camera ardente si apre nel campo che porta il suo nome, un luogo che oggi appare sospeso nel tempo: ad accoglierlo ci sono il trofeo della Coppa Davis vinta da capitano nel ’76, fiori bianco-azzurri disposti con cura quasi rituale, un maxi schermo che proietta immagini della sua vita sportiva e le note struggenti di Charles Aznavour. Tutto richiama la sua storia, tutto parla di lui.
«Tutto come voleva lui», dice il figlio Marco, la voce interrotta dall’emozione, «Il posto e le musiche sono quelle». E aggiunge un ricordo che sembra aprire una finestra sull’intimità del campione: «Si è commosso per l’ultima Davis vinta, per lui indossare la maglia azzurra era importante». Sulle condoglianze ricevute in forma privata da Jannik Sinner, Marco si limita a dire di «non aver guardato», lasciando scivolare la questione in un contesto dove il dolore prevale sul resto.

Aperta la camera ardente di Nicola Pietrangeli, il saluto di Adriano Panatta
Man mano che i minuti scorrono, il campo si riempie di persone che hanno deciso di rendere omaggio al fuoriclasse scomparso. Tra i primi ad arrivare c’è il presidente del Coni, Luciano Buonfiglio, che con poche parole riesce a condensare ciò che Pietrangeli ha rappresentato per il Paese: «Va via la storia e le storie come le sue non muoiono mai», afferma, «Ci ha lasciato un messaggio del quale tutti dovremmo renderci conto». In effetti, davanti a quel feretro e a quella cornice carica di memoria sportiva, sembra impossibile non percepire il peso dell’eredità che Pietrangeli lascia al tennis italiano.

Il saluto pubblico di oggi è stato a lungo incerto. Nel suo libro, Pietrangeli scherzava amaramente sul fatto che, “se piove, rimandiamo”. E così, proprio come aveva immaginato, è accaduto: la camera ardente avrebbe dovuto essere allestita ieri, nello stesso campo, ma il maltempo ha imposto un rinvio. Oggi invece Roma concede una tregua, permettendo che l’ultimo abbraccio collettivo si svolga dalle 9 alle 12, poco prima dei funerali fissati per il pomeriggio, alle 15, a Ponte Milvio, in forma privata.
Solo nella seconda parte della mattinata l’atmosfera cambia leggermente tono, pur restando carica di rispetto. A fare il suo ingresso al Foro Italico è Adriano Panatta, l’amico, il rivale, il compagno di storie sportive che hanno contribuito a scrivere le pagine più amate del tennis italiano. Panatta avanza lentamente, saluta i presenti con discrezione, poi si ferma davanti alla bara. È un gesto semplice, ma destinato a restare impresso nella memoria collettiva: posa una mano sul feretro, china il capo, quindi manda un bacio verso Nicola, come a consegnargli un ultimo messaggio.


In quel gesto, silenzioso e potentissimo, sembra racchiusa un’intera epoca: il tennis dei campi in terra rossa, delle sfide epiche, della rivalità che si trasformava in stima. Un’epoca che oggi appare lontana, ma che grazie a figure come Pietrangeli continua a essere viva. Panatta si trattiene qualche minuto, poi si allontana senza parole, lasciando sul campo quell’istante che è già memoria.
E mentre la camera ardente continua ad accogliere appassionati, colleghi, dirigenti e semplici cittadini, il Foro Italico restituisce la sensazione di un addio che non è solo dolore, ma anche riconoscenza. Nicola Pietrangeli se n’è andato a 92 anni, ma l’Italia del tennis oggi sembra più che mai consapevole che la sua figura resterà una radice, un punto d’origine. Un racconto che non smetterà di essere narrato.


