
Cosa potrebbe spingere la Russia a fare la pace? È il titolo scelto dal «New York Times» per aprire la sua analisi sullo stato dei negoziati tra Washington e Mosca. Una domanda semplice, quasi ingenua nella forma, ma devastante nella sostanza: perché presuppone che oggi il presidente Vladimir Putin non abbia alcuna ragione urgente per fermarsi. E infatti, dopo cinque ore di colloqui tra delegazioni statunitensi e russe, l’esito è stato quello che tutti si aspettavano: nessuna svolta, nessun segnale, nessun risultato politico immediato.

L’analisi del «New York Times»: Putin non ha motivo di fermarsi
Il «New York Times» rivela che Putin si è mostrato parecchio critico e ha stroncato le proposte americane. Non solo. Prima ancora di sedersi al tavolo ha lanciato un avvertimento agli alleati europei dell’Ucraina: «Siamo pronti fin da ora» a combattere se l’Europa «dovesse improvvisamente dichiararci guerra». Una minaccia preventiva, calibrata, quasi un modo per ricordare chi definisce i parametri del confronto. Eppure la parte più significativa dell’analisi americana non riguarda i toni, ma il quadro strategico. Fiona Hill, una delle maggiori conoscitrici dell’apparato russo, spiega che «nessuna delle pressioni su Putin ha raggiunto un punto tale da fargli sentire di dover prendere una decisione o di aver esaurito le opzioni». Tradotto: Mosca non è con le spalle al muro. Né economicamente, né militarmente.

Pressioni insufficienti: economia e guerra non piegano il Cremlino
Sul fronte finanziario, il giornale nota che le entrate petrolifere sono calate, anche del 27% rispetto allo scorso anno, e che le nuove sanzioni su Rosneft e Lukoil, i due maggiori produttori di energia del Paese, pesano. Ma allo stesso tempo la Russia «continua a incassare ingenti somme» grazie alla flotta ombra di petroliere che aggira i controlli occidentali. Clifford Kupchan, presidente di Eurasia Group, definisce questo quadro un «costante grattacapo», non certo una crisi sistemica. È il dolore che ti accompagna, non quello che ti manda in ospedale. Anche sul piano interno, il Cremlino ha trovato il modo di reggere la pressione: tassi altissimi per contenere l’inflazione, spesa pubblica militare che alimenta l’economia di guerra, salari elevati per i soldati che permettono di arruolare 30 mila nuovi uomini al mese. La Russia paga un prezzo altissimo, ma non sente ancora l’urgenza di fermarsi. E questo, per chi spera in una svolta negoziale, è un problema enorme.

L’Europa come bersaglio politico di Putin
E qui si inserisce perfettamente il pezzo di oggi del «Corriere della Sera», firmato da Marco Imarisio. Perché se il «New York Times» spiega perché la Russia non è incentivata alla pace, il «Corriere» mostra come Putin stia usando questo margine per rilanciare la sua sfida politica all’Occidente. Secondo Imarisio, Putin non ha parlato all’Europa: si è rivolto a Trump usando l’Europa come destinatario apparente. Lo ha fatto con parole che suonano come un ultimatum: il presidente americano «deve scegliere, o la Russia o l’Europa». È un passaggio cruciale, perché rivela la geometria negoziale che Mosca vuole imporre. L’Europa, nella visione di Putin, non deve essere un attore. Non deve sedere al tavolo. Non deve essere riconosciuta come soggetto politico di pari livello.

Il nodo geopolitico: Mosca vuole negoziare solo con Washington
La pazienza del Cremlino, ricorda il «Corriere», si sarebbe rotta quando gli europei hanno rimesso le mani sulla proposta statunitense concordata in Alaska. Putin ritiene che «lo spirito di Anchorage» sia stato tradito. E ogni volta che Bruxelles entra nella partita, quella proposta viene, per usare le parole di una fonte citata dal quotidiano, «cambiata, snaturata, peggiorata». Insomma, per Putin, l’Europa sarebbe il problema, non la soluzione. La chiave è tutta qui. Finché gli Stati Uniti lavorano insieme all’Unione Europea, la Russia considera il negoziato una trappola. È questa la precondizione politica che spiega l’atteggiamento del Cremlino meglio di qualsiasi analisi militare. Ed è il punto in cui il ragionamento del «New York Times» e quello del «Corriere della Sera» si incontrano perfettamente.

Perché la pace non è così vicina: i paletti di Putin
La Russia non vede ragioni per fermarsi e Putin vuole che l’America tratti da sola, senza l’Europa. Messe insieme, le due cose producono la fotografia più nitida del momento: la pace non è lontana per le difficoltà del campo, ma perché Mosca non accetterà mai un accordo in cui l’Ue abbia voce in capitolo. Non è un dettaglio, semmai l’impianto dell’intero conflitto. Nella sua mente Putin si figura una Russia proiettata verso l’Asia, un’Europa relegata a spettatrice, un’America da isolare dai suoi alleati. Per questo l’avvertimento del «Corriere» («una specie di ultimatum per metterlo davanti alle proprie responsabilità»), va letto insieme alla constatazione del «New York Times» che il leader del Cremlino, oggi, non è davvero sotto pressione.

Cosa può impedire all’Occidente di arrivare unito alla pace?
È questo l’incrocio che racconta l’impasse. Una Russia che può permettersi la guerra. Una Russia che non vuole la pace a meno che il tavolo negoziale non venga ridisegnato a suo vantaggio. E un Occidente che, per ora, non ha trovato il modo di rispondere in modo coeso a questa doppia sfida. Di fronte ad un quadro così impietoso forse però si potrebbe trovare una via di fuga se la domanda del «New York Times» venisse aggiornata. Non più: cosa potrebbe spingere la Russia a fare la pace? Ma cosa potrebbe impedire all’Occidente di arrivarci unito? Perché la pace non dipende solo da ciò che accade a Mosca o sul campo di battaglia, ma da ciò che accade a Washington e a Bruxelles. E da come reagiremo all’idea, tutt’altro che nascosta, che in un futuro ordine mondiale immaginato dal Cremlino, l’Europa non debba avere alcuna voce.


