
Il lutto è arrivato come uno schianto, senza preavviso, lasciando un silenzio irreale dentro un luogo che di solito vive di voci, di mani che impastano, di sorrisi che si intrecciano al profumo della pizza. PizzAut oggi è rimasto chiuso, e non per un guasto o un imprevisto: è rimasto chiuso perché è morto Enrico Celeghin, il capo pizzaiolo, il pilastro silenzioso e presente di un progetto che ha cambiato la vita a tanti ragazzi autistici e alle loro famiglie. Un uomo amato, riconosciuto, necessario. Un vuoto così grande da far tremare ogni cosa.
Le parole pubblicate sui social dal ristorante parlano di uno stato d’animo devastato, del dolore che ha travolto “i ragazzi” e tutta la squadra. Nessuno, scrivono, è in grado di lavorare. Nessuno riesce nemmeno a fingere. Perché perdere Enrico non significa semplicemente perdere un collega: significa perdere una parte dell’identità stessa del progetto, quella parte che restava un passo indietro per far avanzare gli altri, la parte che teneva insieme tutto.
Il legame indissolubile con Nico Acampora
A spiegare chi fosse davvero Enrico Celeghin è Nico Acampora, fondatore di PizzAut, che sui social ha scritto un messaggio che è insieme un saluto, un grido e una promessa. Racconta che si vedevano ogni mattina, che lavoravano insieme almeno sedici ore al giorno, che era la persona con cui divideva la maggior parte della sua vita. Con Enrico, dice, si andava in vacanza, si parlava dei figli, si condividevano stanchezze e sogni, sofferenze e gioie. Con Enrico si costruiva un mondo.
Acampora lo descrive come un uomo che non si dedicava solo ai suoi figli, ma che si prendeva cura dei figli degli altri, come se fossero suoi. Un uomo che, per carattere e scelta, sapeva guardare tutto e tutti stando un po’ più indietro. Un uomo che non era un volontario, come qualcuno ha scritto, ma era PizzAut stesso: la sua anima, il suo respiro, la sua forza quotidiana. Quando gli è arrivata la notizia – “Enrico è morto” – racconta che è morta anche una parte di lui. E chiede, quasi supplicando, che Enrico continui a restare vicino ai suoi ragazzi, alla sua famiglia, e anche a lui. Perché senza di lui, dice, non ce la fa.
Il vuoto in una comunità che è famiglia
La morte di Enrico Celeghin non è solo un lutto privato. È un colpo tremendo per un progetto che negli anni è diventato un simbolo nazionale di autonomia, di inclusione, di dignità del lavoro. La sua scomparsa lascia una comunità disorientata, che oggi si ritrova a fare i conti con l’assenza di una figura che non appariva in prima linea, ma che sosteneva tutto da dietro le quinte, con calma, competenza e una sensibilità rara.
Oggi le porte restano chiuse, ma è come se tutta l’Italia fosse lì, fuori, ad aspettare. Non per una pizza, ma per restituire un frammento di quella gratitudine che in tanti, negli anni, hanno provato entrando da PizzAut. Oggi il progetto è ferito. Oggi è tempo di dolore.
Quando torneranno a riaprire, lo faranno portando Enrico con sé. E, come ha scritto Acampora, continueranno a farlo restare “vicino a tutti”, perché la parte migliore di certi uomini non muore davvero.


