
Il silenzio è arrivato inaspettato, portando con sé un’eco profonda nel cuore della savana. È il lutto che colpisce non solo coloro che lo hanno amato e che hanno condiviso con lui una battaglia epica, ma l’intero mondo della conservazione. La Terra ha perso uno dei suoi difensori più tenaci e risoluti, un uomo la cui vita è stata tessuta indissolubilmente con il destino dei giganti d’Africa.
Un’esistenza, quella appena conclusa a 83 anni, spesa a capire, proteggere e lottare per una causa più grande di sé. Questo addio lascia un vuoto incolmabile, la sensazione di una sentinella caduta, e l’immensa consapevolezza di un’eredità inestimabile che ora tocca ad altri onorare e portare avanti. La notizia, comunicata dall’organizzazione da lui fondata, ha risuonato come un doloroso riconoscimento di una “perdita immensa per la conservazione”, l’ultima, grande orma di un pioniere.
Le Origini e i primi studi in africa
Iain Douglas-Hamilton era nato il 16 agosto 1942 a Ferne House, una tenuta rurale vicino a Shaftesbury, nel Dorset. La sua vocazione per gli animali e, in particolare, la sua passione inestinguibile per gli elefanti, lo condussero a una laurea in etologia presso l’Università di Oxford. La sua tesi si concentrò sui grandi animali africani, un interesse che aveva preso forma già a soli 23 anni durante un viaggio nell’area del lago Manyara, nella Tanzania settentrionale. Fu proprio in Africa, il continente che amò profondamente e che divenne il fulcro della sua attività, che lo zoologo mosse i suoi primi passi cruciali per la conoscenza della specie. Fin da subito, si confrontò con la minaccia più grave per la sopravvivenza degli elefanti: il bracconaggio, un’attività predatoria mossa dalla richiesta internazionale di avorio. Il suo lavoro sul campo gettò le basi per una comprensione rivoluzionaria di questi animali.
Douglas-Hamilton fu un pioniere nelle metodologie di monitoraggio degli elefanti. Riuscì a sviluppare una tecnica peculiare e innovativa che permetteva di riconoscere i singoli individui non più solo come parte di un branco indistinto, ma come soggetti unici. Questo riconoscimento avveniva attraverso l’osservazione dettagliata della forma delle orecchie e del livello di rugosità della pelle. Con questo approccio individualizzato, “l’uomo che amava gli elefanti” non solo trasformò la scienza, ma modificò anche la percezione comune di questi giganti. Dimostrò in modo inconfutabile che gli elefanti non erano semplici “branchi senza anima”, ma esseri dotati di cognizioni complesse e di emozioni profonde. Le sue ricerche misero in luce la loro capacità di instaurare legami sociali stretti, basati sulla cura reciproca, sull’empatia e, in particolare, sul sentimento di lutto per la scomparsa di conspecifici. Fu fondamentale anche la sua comprensione della struttura matriarcale della loro società, dove le femmine adulte gestiscono i rapporti e guidano il gruppo, stabilendo le regole sociali.
La guerra contro l’olocausto dell’avorio
Il lavoro sul campo di Douglas-Hamilton lo mise immediatamente in contatto con l’orrore inaudito causato dal bracconaggio. I cacciatori illegali, spinti dalla lucrativa richiesta di avorio proveniente principalmente da Usa ed Europa, stavano decimando la popolazione di elefanti africani in modo allarmante. Il periodo tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento rappresentò un picco drammatico, tanto da portare al dimezzamento della popolazione complessiva. Con una retorica potente e senza mezzi termini, l’etologo definì quel massacro come un “olocausto degli elefanti”. Dedicò anima e corpo alla lotta contro questa piaga, conducendo e promuovendo indagini su vasta scala che svelarono la rete di ingaggio e il traffico internazionale che foraggiava i bracconieri locali. Il suo impegno instancabile e la sua operazione di sensibilizzazione su larga scala furono determinanti: grazie a lui, nel 1989, la Convenzione di Washington approvò il divieto assoluto di commercio internazionale d’avorio. Nonostante questo successo storico, Douglas-Hamilton continuò a battersi, come testimonia il suo intervento nel 2012 al Senato degli Stati Uniti, dove descrisse la continua strage di elefanti, ribadendo che il divieto non era stato sufficiente a fermare del tutto l’abominio.
L’eredità letteraria di Iain Douglas-Hamilton è racchiusa in due opere scritte insieme alla moglie, Oria Rocco: Among the Elephants (1975) e Battle for the Elephants (1992). Tuttavia, è la sua stessa storia d’amore con Oria a rendere la sua vita ancora più straordinaria e toccante. Oria era, infatti, la figlia di un cacciatore d’avorio. Suo padre, un ufficiale di cavalleria italiano, si era trasferito nel Congo Belga per cercare fortuna proprio nella caccia agli elefanti. L’incontro tra Iain e Oria nel 1969, quando lui era in Tanzania per i suoi studi, fu un evento travolgente che non solo diede inizio a una profonda relazione amorosa, ma anche a una totale condivisione di ideali. Oria, confrontandosi con la dura realtà del pericolo che incombeva sugli animali che aveva sempre avuto accanto, si trasformò in una fervente paladina della causa del marito, diventando un elemento fondamentale e insostituibile in tutto ciò che hanno realizzato insieme per la salvaguardia degli elefanti. Iain Douglas-Hamilton ha lasciato la moglie Oria, i figli Saba e Dudu, e sei nipoti, ma soprattutto ha lasciato ai suoi amati elefanti e al mondo un modello di dedizione e una speranza concreta per il loro futuro.
Save the elephants: l’eredità per un futuro protetto
L’impegno a lungo termine di Douglas-Hamilton si concretizzò con la fondazione, nel 1993, di Save the Elephants (STE). La mission dell’organizzazione è rimasta fedele alla visione del suo fondatore: garantire una vita pacifica e un futuro sicuro agli elefanti africani. Le attività di STE si basano su tre pilastri: studio scientifico, monitoraggio e protezione dell’habitat, sempre spingendo per una collaborazione proattiva con le popolazioni locali. Oltre agli studi etologici di base che continuano a espandere la conoscenza su questi animali, a STE si deve l’introduzione dei GPS satellitari come metodo di monitoraggio. Questi strumenti sono fondamentali per tracciare le rotte di migrazione degli elefanti, identificare le aree più a rischio e, di conseguenza, lavorare per la creazione di corridoi protetti. L’etologo ha sempre sottolineato l’importanza del coinvolgimento delle comunità umane che convivono con gli elefanti. L’associazione porta avanti progetti di condivisione e supporto sia all’interno della Samburu National Reserve sia nel centro operativo di Tsavo, il più grande parco nazionale del Kenya, coprendo quasi 22 mila chilometri quadrati.


