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Con Sergio Flamigni se ne va l’ultimo custode della verità sul caso Moro

Pubblicato: 10/12/2025 13:29

Sergio Flamigni, morto oggi nella sua Forlì all’età di 100 anni, è stato un politico, partigiano e studioso italiano il cui nome è indissolubilmente legato al caso Moro. Dirigente di spicco del PCI, è stato deputato e senatore dal 1968 al 1987, partecipando attivamente alla vita politica repubblicana e a commissioni d’inchiesta chiave (Moro, P2, Antimafia). Dopo la guerra di Liberazione, in cui fu commissario politico della Brigata Garibaldi “Gastone Sozzi”, Flamigni divenne segretario regionale PCI dell’Emilia-Romagna (1960) e consigliere comunale/regionale. Nel 2005 ha fondato l’Archivio Flamigni, centro di documentazione dedicato alle memorie del Novecento italiano e in particolare al terrorismo e al caso Moro. In varie sedi ha pubblicato saggi importanti come Il covo di Stato, Trame atlantiche e La sfinge delle Brigate Rosse, focalizzati sulla verità storica delle stragi e della Loggia P2. Come ricordava lui stesso, «la verità ha pazienza»: non ha mai smesso di cercare risposte sui grandi misteri repubblicani.

Impegno nella Commissione Moro

Nel gennaio 1980 Flamigni fu chiamato a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. In questa veste poté analizzare documenti riservati, audizioni e perizie sul sequestro Moro (16 marzo – 9 maggio 1978). La sua presenza fu notata per rigore investigativo e indipendenza di vedute: non esitò a criticare metodi e omissioni della Commissione. Denunciò che molti snodi cruciali, come il ritrovamento del covo di via Gradoli o il memoriale Morucci, furono accolti con eccessiva accondiscendenza dalle istituzioni.
Nel Rapporto sul caso Moro (Kaos, 2019), Flamigni sostiene che la versione istituzionale fu, fin dall’inizio, «una colossale menzogna», utile a celare responsabilità politiche, operative e internazionali. A suo avviso, lo Stato accettò troppo facilmente la ricostruzione fornita da ex brigatisti dissociati, come Valerio Morucci, senza approfondire a dovere le incongruenze.

Sergio Flamigni e il caso Moro: misteri irrisolti e piste alternative

Fra gli aspetti che Flamigni ha più a lungo indagato sul caso del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, alcuni rimangono tuttora senza risposta certa:

Doppio covo e la pista vaticana: secondo Flamigni, Aldo Moro fu tenuto prigioniero, nei primi giorni, in un appartamento in via Massimi 91, stabile riconducibile a proprietà del Vaticano e frequentato da soggetti legati all’intelligence. Un dettaglio che, se confermato, cambierebbe profondamente lo scenario dei primi giorni del sequestro.

Versione del memoriale Morucci: Flamigni ha contestato la veridicità del memoriale firmato dall’ex brigatista, ritenendolo frutto di una narrazione concordata con i servizi segreti per chiudere velocemente il caso, escludendo responsabilità esterne o complicità interne allo Stato.

La strage di via Fani: ha più volte sostenuto che il numero dei partecipanti all’agguato fosse maggiore di quanto dichiarato, e che tra gli esecutori vi fosse almeno un tiratore scelto estraneo alle BR, dato supportato da elementi balistici e testimonianze mai adeguatamente approfonditi come ad esempio la foto di un uomo del commando non riconducibile ai BR poi “sparita” dalle carte dell’inchiesta.

Coinvolgimenti internazionali: in più opere ha ipotizzato che il delitto Moro sia stato facilitato da pressioni internazionali, in particolare dagli Stati Uniti, preoccupati per l’apertura al PCI promossa dallo statista. In Trame atlantiche, suggerisce che l’intera operazione potesse inserirsi in una più ampia strategia di contenimento anticomunista.

Gladio e P2: Flamigni ha documentato la presenza di esponenti della P2 e del circuito Gladio nei luoghi chiave della gestione della crisi, sottolineando l’opacità con cui sono state condotte le indagini. Gli apparati deviati, secondo lui, hanno giocato un ruolo attivo nell’orientare depistaggi e omissioni.

L’eredità di un “custode della memoria”

Fino ai suoi ultimi giorni, Flamigni ha continuato a scrivere, documentare, intervenire nel dibattito pubblico. I suoi libri sono oggi considerati un patrimonio imprescindibile per chi voglia approfondire con rigore storico il caso Moro e le pagine più oscure della Prima Repubblica. Come ha ricordato la Repubblica, è stato «il custode tenace della verità nascosta».
Il suo approccio è stato quello del ricercatore scrupoloso, refrattario alle dietrologie gratuite ma inflessibile nel chiedere risposte laddove lo Stato ha preferito il silenzio. La sua morte, a cent’anni, segna non solo la scomparsa di un testimone diretto ma anche la perdita di una coscienza critica che ha illuminato le pieghe più oscure della democrazia italiana. L’archivio che porta il suo nome continuerà a essere, per studiosi e giornalisti, una bussola preziosa nella ricostruzione della verità storica.

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