
Nel retroscena ricostruito da Repubblica e ripreso da Dagospia, emerge una preoccupazione che a Palazzo Chigi, ormai, non viene più nascosta nemmeno nei corridoi: il vero incubo per Giorgia Meloni non è perdere le elezioni del 2027, ma pareggiarle. Uno scenario sospeso, senza vincitori, che aprirebbe la porta a quel vortice di dinamiche che in Italia conosciamo fin troppo bene: larghe intese costruite sull’emergenza, maggioranze rimescolate nel giro di una notte, un ruolo decisivo per Forza Italia e, soprattutto, la fine del progetto di portare un esponente della destra al Quirinale nel 2029. È questa la linea rossa che Meloni teme di vedere dissolta. Ed è da qui che nasce la fretta, quasi l’urgenza, di modificare la legge elettorale.
Perché il Rosatellum non basta più
Negli ultimi mesi, nelle stanze di via della Scrofa, la questione è diventata la vera ossessione. La premier e i suoi collaboratori hanno passato ore a valutare numeri, proiezioni, rischi. La sensazione, aggravata dai segnali non esaltanti arrivati da Puglia e Campania, è che il Rosatellum non offra più alcuna rete di sicurezza. Non garantisce un vincitore, non blinda una maggioranza e, soprattutto, non assicura quella continuità politica di cui la destra avrebbe bisogno per affrontare la partita del Colle. Perché qui non si parla semplicemente di governare cinque anni: si parla di occupare la poltrona più simbolica della Repubblica.
Lo spettro delle larghe intese e del governo tecnico
Un pareggio, invece, spalancherebbe il tavolo alle “soluzioni istituzionali”. E in Italia sappiamo come va a finire: quando il risultato elettorale si inceppa, si invoca la responsabilità nazionale, la politica si ritrae e arriva il momento del tecnico. È successo con Monti, è successo più recentemente con Draghi. E l’ipotesi di ritrovarsi, nel 2027, con un governo “alla Draghi” che nasce per necessità e non per volontà politica è un pensiero che nell’entourage di Giorgia Meloni serpeggia con crescente preoccupazione. Perché un esecutivo tecnico è l’esatto opposto della narrazione del “governo forte”. È per la leader di Fratelli di Italia, l’anticamera del compromesso, e il compromesso, per chi punta al Colle, è il bacio della morte. Troppo eccessivo? Fate voi.
Il ruolo ambiguo di Forza Italia
A rendere la situazione ancora più nervosa è Forza Italia, che in uno scenario di stallo diventerebbe l’ago della bilancia. Antonio Tajani continua a usare toni rassicuranti, non smentisce la necessità di riflettere sulla legge elettorale, anzi sembra perfino collaborativo. Ma il punto non è lui. Il punto è chi sta sopra di lui: Marina e Pier Silvio Berlusconi, i veri titolari del marchio. La primogenita del fondatore di FI ha già mostrato più volte una sensibilità distante dal melonismo su diritti, welfare e riforme. E quel famoso incontro con Mario Draghi, che a Palazzo Chigi non hanno dimenticato, continua a essere interpretato come un segnale di autonomia politica. Pier Silvio, dal canto suo, non ha mai escluso del tutto un futuro in politica, e questo basta a rendere Forza Italia un attore imprevedibile. È esattamente questo che spaventa Meloni: un pareggio che consegna il pallino della crisi a un partito capace di muoversi in direzioni non sempre allineate. Non sarebbe la prima volta se FI decidesse di sacrificare una maggioranza per un’operazione di sistema. E in una fase in cui potrebbe riaprirsi la strada a un governo tecnico o a una maggioranza di salvataggio nazionale, quella mossa avrebbe conseguenze devastanti sul progetto della destra.
Il pensiero fisso di Giorgia Meloni (e di Fratelli di Italia)
Perché tutto converge lì: sul Quirinale. Il sogno, mai nascosto, degli eredi della tradizione post-missina è arrivare al 2029 con la forza parlamentare sufficiente per eleggere un Presidente di area conservatrice. Un obiettivo storico, simbolico, identitario. Ma per riuscirci non basta vincere: bisogna stravincere. Serve un Parlamento stabile, una coalizione che non traballa alla prima crisi, un margine di sicurezza che il Rosatellum, oggi, non sembra più garantire. Un pareggio, invece, consegnerebbe il Colle a un accordo trasversale, forse inevitabile, che punterebbe su un nome “di garanzia”, ossia tutto ciò che la destra non vuole. Ecco perché Meloni accelera, insiste, spinge. La riforma elettorale non è solo tecnica: è prevenzione politica. È il tentativo di neutralizzare in anticipo qualsiasi esito ambiguo, qualunque varco che possa portare alle larghe intese o a un governo tecnico. È un modo per evitare di ritrovarsi, tra due anni, a ripetere la stessa storia che l’Italia recita da trent’anni: stallo elettorale, equilibrio fragile, Colle deciso in notturna.
L’accelerazione della premier Meloni
La premier Giorgia Meloni lo sa: il sistema attuale non garantisce più nulla. E, di fronte alla prospettiva del pareggio, la mossa peggiore sarebbe stare fermi. Per questo il cantiere della nuova legge elettorale si muove a grande velocità, mentre il clima nella maggioranza si fa più teso, più sospettoso. La posta in gioco non è il 2027. È il 2029. E su quella poltrona bianca al Quirinale si gioca una partita che Meloni non può permettersi di perdere, né tantomeno di pareggiare.


