
Il dossier che oggi partirà da Kiev verso Washington arriva già logorato da settimane di rimbalzi tra colloqui, emendamenti e pressioni incrociate, eppure è su quel testo che Volodymyr Zelensky ha deciso di giocare la sua carta più politica: aprire alla possibilità di elezioni entro tre mesi, se gli Stati Uniti garantiranno la sicurezza. Una mossa studiata, sussurrata nelle cancellerie europee e calibrata per ammorbidire una Casa Bianca che, a microfoni spenti, resta molto più dura dell’immagine consegnata alle dichiarazioni ufficiali. Il piano atteso oggi è un compromesso instabile, privo di un limite al numero dei soldati ucraini e con un congelamento del fronte, ma già osservato con scetticismo tanto a Bruxelles quanto a Washington.
L’Europa guarda a questo passaggio con un misto di prudenza e fatalismo. Nessun diplomatico scommette davvero sulla possibilità che Vladimir Putin accetti la proposta sulla smilitarizzazione dell’area di Sloviansk e Kramatorsk, né tantomeno l’idea di un intervento in stile articolo 5 della Nato che scatterebbe automaticamente in caso di un nuovo attacco russo. In quest’atmosfera sospesa, Zelensky arriva addirittura a Roma per coinvolgere Giorgia Meloni, utile nella partita con Orbán e nel tentativo di orientare Donald Trump in una fase in cui l’ex presidente americano appare più vicino a Mosca che a Kiev.
Pressioni americane e il nodo del Donbass
Il piano che Zelensky invierà oggi alla Casa Bianca nasce dai colloqui di Miami, Londra e Bruxelles ed è costruito attorno a un equilibrio fragile: Kiev non intende cedere territori né riconoscere formalmente le aree occupate, mentre Mosca rivendica l’intero Donbass, inclusa la parte non conquistata. La soluzione pensata dagli ucraini – una zona smilitarizzata con tutela internazionale ma senza trasferimenti formali di sovranità – rappresenta, nelle parole dei collaboratori del presidente, un tentativo di salvare l’integrità territoriale senza alimentare l’escalation. Per Trump, però, è un non starter, un’ipotesi che vanifica ogni possibile avanzamento del negoziato e che arriva mentre i sondaggi danno Zelensky al 20% e vulnerabile all’accusa di voler evitare il voto.
È qui che si inserisce il rilancio politico: la promessa di elezioni entro 60-90 giorni, qualora Stati Uniti ed europei garantiscano la sicurezza e il Parlamento approvi una riforma che consenta il voto sotto legge marziale. Una concessione simbolica ma pesante, pensata per dimostrare che la democrazia ucraina non è sospesa per volontà del presidente bensì per necessità militare. E al tempo stesso un modo per aggirare lo stallo del negoziato, offrendo all’Occidente un gesto politico in cambio di una maggiore protezione strategica.
L’Europa tra asset russi e scenari di rottura
La trattativa passa anche da una decisione attesa per il Consiglio europeo del 18-19 dicembre: l’impiego dei beni russi congelati, circa 200 miliardi di euro custoditi soprattutto in Belgio. Macron, Merz, von der Leyen e Costa hanno assicurato a Zelensky che l’Ue procederà in questa direzione, con l’obiettivo di finanziare e armare Kiev durante il fragile percorso verso il cessate il fuoco. Ma il quadro politico resta instabile. Meloni continua a essere esclusa dal formato E3, e la visita del presidente ucraino a Roma serve anche per tentare un pressing su Orbán e per sondare il possibile ruolo italiano nell’interlocuzione con Trump.
Nelle ultime ore i leader europei hanno indicato a Zelensky due scenari possibili: se sarà Putin a respingere il piano emendato, l’Ue proverà a ricucire con Washington; se invece sarà Trump a bocciarlo, Europa e Ucraina dovranno prepararsi a sostenere da sole il confronto con Mosca, almeno per qualche mese. In questa cornice è riemersa l’idea di un coinvolgimento dell’Onu come forza di interposizione con militari non europei, ma si tratta di un’opzione remota, legata a un orizzonte di pace che, almeno per ora, non si intravede. E a Bruxelles lo dicono chiaramente: oggi, la palla è nelle mani di Putin.


